IIn Etiopia, più di 10 milioni di persone sono a rischio fame a causa dei cambiamenti climatici e del Niño. L’ennesima carestia evidenzia le contraddizioni di un Paese che viaggia a doppia velocità.
Stiamo consigliando alle famiglie di macellare gli animali, prima che diventino carcasse». Suor Laura Girotto, missionaria salesiana da 24 anni ad Adua, nella regione del Tigray all’estremo nord dell’Etiopia, vede passare ogni giorno gruppi di persone che si spostano verso sud. Alla ricerca di acqua e di cibo. «Qui in missione abbiamo due pozzi e siamo riusciti a prevenire la catastrofe creando un sistema di cisterne che ci consente di utilizzare ogni singola goccia di acqua piovana – racconta -. In questo modo riusciamo ad irrigare l’orto e dar da bere agli animali della fattoria: galline, conigli e mucche che ci garantiscono l’autosufficienza alimentare. Assisti-amo come possiamo le persone che ci chiedono aiuto, anche grazie all’associazione Amici di Adwa che ci supporta dall’Italia, ma i bisogni sono troppo grandi. Abbiamo già 400 bambini in cura per malnutrizione».
In Etiopia non piove dalla primavera del 2015. La siccità causata dal fenomeno meteorologico El Niño ha colpito in particolare le regioni centro-orientali del Paese: la Somali Region, l’Oromia, l’Afar, oltre a una parte consistente del Tigray. Ma anche nel sud, al confine con il Kenya e con il Sud Sudan, è emergenza alimentare. Le persone senza cibo sufficiente sono 10,2 milioni, ma la cifra sta crescendo di mese in mese. Secondo l’organizzazione umanitaria Oxfam, altri 7,9 milioni di etiopi sono in situazione di povertà cronica e a rischio malnutrizione da qui a giugno, mese in cui, secondo le previsioni, la crisi avrà il suo picco.
El niño è un fenomeno legato al riscaldamento anomalo delle acque superficiali in alcune zone dell’oceano Pacifico che ha effetti molto profondi sulle condizioni meteorologiche e climatiche mondiali, portando riduzione delle precipitazioni e siccità in alcune regioni del mondo e inondazioni in altre. Nel Corno d’Africa, e in particolare in Etiopia, l’impatto è stato devastante: nei primi mesi del 2015 è saltata la stagione delle piccole piogge, e anche le grandi piogge previste solitamente da giugno a settembre sono mancate per la prima volta dal 1989. «Secondo la Fao la produzione agricola in Etiopia è crollata dal 50 al 90 per cento nelle regioni colpite» – afferma la responsabile dell’Ufficio Africa di Oxfam Italia, Silvia Testi -. «Il raccolto è completamente perduto nella regione del Somali, a est del Paese. Le persone che vivono in questa zona vedono marcire i loro raccolti e morire di fame i loro animali, e non hanno abbastanza cibo e acqua per vivere». Le Nazioni Unite hanno calcolato che sarà necessario un aiuto complessivo di 1,4 miliardi di dollari per affrontare l’emergenza. A oggi ne sono stati ottenuti 686 milioni, cifra che comprende anche i fondi messi a disposizione dal governo etiope, pari a 381 milioni. Carestie di questo tipo in Etiopia se ne sono già verificate nel 2008, nel 2011 e soprattutto nel 1984, quando le vittime furono centinaia di migliaia. Ma le condizioni del Paese sono cambiate. E a colpire, rispetto al passato, sono le contraddizioni.
La crescita economica a un ritmo del 10 per cento l’anno ha reso il Paese fra i più attrattivi in Africa per gli investitori stranieri. In poco tempo il volto della capitale Addis Abeba si è trasformato: nuovi centri commerciali, hotel e ristoranti di lusso sono sorti in tutta l’area urbana, che ora è attraversata per 35 chilometri dalla nuova linea ferroviaria leggera, ultimata da poco da un’azienda cinese. Ma, fuori Addis, il volto di questo vastissimo Paese è rurale: l’80% dei 93 milioni di abitanti vive di agricoltura e pastorizia. I benefici di uno sviluppo basato sulla costruzione di grandi infrastrutture, sull’industria e la tecnologia nelle aree rurali non sono arrivati.
L’Etiopia è anche fra i Paesi dove grandi appezzamenti di terra sono stati affittati a investitori stranieri, soprattutto indiani ma anche cinesi, arabi e olandesi. Investimenti che in teoria dovrebbero avere ricadute positive anche in termini di sviluppo locale, succede invece che le serre dove si coltivano fiori – ma anche frutta e verdura – sono gli snodi di un commercio che procede parallelo. Autobus carichi di frutta e verdura freschi provenienti dall’Etiopia arrivano due volte alla settimana a Gibuti, per essere venduti sui mercati locali. «Le consegne sono andate avanti puntualmente anche in questi mesi di carestia» conferma una fonte a Gibuti – prima gli ortaggi arrivavano via treno, ora sugli autobus, in attesa della linea ferroviaria che collegherà Addis Abeba a Gibuti, che un’azienda cinese sta ultimando».
Bisogna premettere che l’Etiopia è un Paese vasto, e ci sono aree dove l’approvvigionamento idrico più costante permette un’agricoltura migliore e più avanzata. Sono però molti i prodotti coltivati in quelle aree che prendono la via diretta dell’esportazione. Un altro paradosso è che nel giro di due anni l’Etiopia esporterà a Gibuti anche acqua, attraverso un condotto in costruzione a partire dalla città di Adi Ggala, nella Somali Region. A sfamare la stragrande maggioranza della popolazione etiope è ancora l’agricoltura, quella su piccola scala, famigliare o poco più. E qui gli investimenti non ci sono stati.
«I primi a soffrire la siccità sono stati gli agricoltori e i piccoli produttori, che non hanno accesso all’acqua in modo permanente e che dipendono dall’irrigazione piovana» afferma da Addis Abeba Andrea Bessone, responsabile dei progetti agricoli in Etiopia dell’Associazione internazionale volontari laici (Lvia). «Se gli investimenti fossero stati indirizzati anche nelle aree agricole, per esempio creando sistemi irrigui a supporto degli agricoltori, la sicurezza alimentare sarebbe ora meno a rischio».
Nel 2005 il governo etiope ha avviato il programma Productive safety net (Rete di protezione produttiva) per supportare le popolazioni rurali in aree dove la siccità è cronica e ricorrente. «Questo programma si basa soprattutto su cibo in cambio di lavoro: vengono consegnati beni alimentari ai capi famiglia in cambio di servizi per la comunità – afferma il cooperante italiano -. In occasione dell’emergenza gli interventi sono stati rafforzati, sappiamo per esempio che c’è trasporto d’acqua nelle aree più colpite». In Etiopia, le organizzazioni non governative presenti nelle aree rurali con progetti di sviluppo stanno modificando i propri interventi per affrontare l’emergenza.
In Oromia Lvia ha riabilitato dei pozzi che erano andati in disuso e sta sostenendo le cooperative di agricoltori con l’acquisto di sementi. Nell’Afar sta distribuendo foraggio e vaccinando gli animali grazie a un fondo stanziato dal ministero Affari esteri italiano. «In entrambe le aree dove operiamo il paesaggio è desolante – afferma Bessone – tutto è secco e grigio, i corsi d’acqua, soprattutto quelli secondari, sono asciutti e per strada si vedono carcasse di animali abbandonati. C’è poca gente sulle strade rispetto al solito, perché i pastori si sono spostati già da tempo in altre aree». Procurarsi il cibo diventa sempre più difficile anche nei centri urbani: dall’inizio della crisi il prezzo del teff, il cereale che costituisce la dieta base della popolazione etiope, è aumentato del 300 per cento e più, come conferma suor Laura Girotto: «Un quintale di teff prima della siccità costava 500 birr (la moneta locale, ndr), oggi è sul mercato a 2.000 birr, che equivale a uno stipendio medio mensile. Come fa la gente ad acquistarlo?». Il prezzo di altri prodotti di base come il riso, il mais e il sorgo ha raggiunto livelli record in molte aree del Corno D’Africa. In Somalia, ad esempio, il costo del sorgo è salito del 240% rispetto allo scorso anno.
Di questa crisi alimentare si parla poco sui media internazionali ma anche su quelli etiopi. Il governo all’inizio ha esitato ad ammettere la gravità della crisi e solo a dicembre dello scorso anno ha pubblicato un report congiunto con le agenzie delle Nazioni Unite sulla siccità e sull’emergenza cibo. La gestione degli aiuti avviene a livello centrale attraverso la commissione Disaster Risk Management, e commissioni a livello regionale cui partecipano anche le organizzazioni internazionali e i donatori bilaterali. In Etiopia sono operative 66 organizzazioni umanitarie, fra cui dieci agenzie delle Nazioni Unite.
Lo scorso gennaio i vescovi dell’Etiopia hanno lanciato un appello sottolineando un altro aspetto collaterale della siccità: il crescente numero di profughi e sfollati. Sarebbero oltre 821 mila le persone «sfollate a causa della siccità, della carestia e dei conflitti» – sottolinea la Chiesa etiope – fra cui tanti giovani che «corrono il rischio di migrare altrove, attraverso mezzi illegali, in cerca di un lavoro e di una vita migliore. Una situazione che lascia soli ed abbandonati i genitori, le mogli, le giovani donne, tutti lontani dai figli, dai mariti e dagli uomini che spesso sono gli unici «a portare il pane quotidiano in casa e a difendere le ragazze da violenze ed abusi». La Chiesa etiope, che sta intervenendo direttamente attraverso un progetto di Caritas Internationalis, ha fatto appello al governo e ai privati – affinché «si colmino le carenze umanitarie di questa emergenza, fornendo alla popolazione non solo cibo, ma anche cure sanitarie, controllo delle malattie e la possibilità di ripopolare il bestiame».
Un altro rischio concreto in molte aree colpite dalla siccità, dove i pozzi, le sorgenti e i fiumi sono completamente secchi, è l’aumento delle malattie croniche della pelle, come la scabbia, e un peggioramento generale della salute delle persone, soprattutto dei bambini, dovuto alla crescente disidratazione, che rende vulnerabili alle malattie trasmissibili. Una fonte delle Nazioni Unite da Addis Abeba che preferisce restare anonima ci conferma che: «C’è un massiccio focolaio di colera a Moyale mentre nella regione dell’Amhara c’è la scabbia».
Lo scorso gennaio la Cooperazione italiana ha stanziato un milione di euro per interventi nel settore della sicurezza alimentare in Etiopia. Il finanziamento sarà suddiviso in parti uguali fra il Programma Alimentare Mondiale (Pam) e l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao). Il contributo di 500 mila Euro concesso al Pam sarà destinato a coprire il fabbisogno alimentare dei gruppi più vulnerabili, mentre quello alla Fao finanzierà la fornitura di sementi e attrezzature a favore delle comunità agro-pastorali più colpite, rafforzandone la capacità di affrontare l’emergenza. In aggiunta, il ministero Affari Esteri ha destinato 12 milioni di euro a un programma di rafforzamento delle comunità locali nelle aree soggette a siccità ricorrente, che sarà attivato nei prossimi mesi. Il rischio è che questi interventi arrivino troppo tardi. «La situazione continua a peggiorare – ha detto padre Haile Gabriel Meleku, vicesegretario generale della Conferenza episcopale etiope, all’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre – Le persone a rischio sono aumentate di due milioni in un solo mese, da gennaio a febbraio di quest’anno. Ed il numero po