Psicologa e formatrice, suor Suzanne è una missionaria dell’Immacolata camerunese che vive in Guinea-Bissau, dove cerca di promuovere più attenzione alle esigenze di donne e giovani dentro e fuori la Chiesa
«Qui, in Guinea-Bissau, mi scambiano per una del posto. Poi, però, non appena apro bocca si rendono subito conto che sono straniera!». Suor Suzanne Djebba, 44 anni, è una missionaria dell’Immacolata originaria del Camerun e “trapiantata” nel piccolo Paese dell’Africa occidentale, dove opera dal 2017. Lo dice scherzando, suor Suzanne, con la sua risata contagiosa che trasmette subito allegria e buon umore. E che aiuta a superare molte barriere comunicative. Anche per chi, come lei, da africana, si trova a vivere la missione in un altro contesto molto diverso dal suo, non solo per la lingua, ma anche per storia, cultura, tradizioni e pure per il modo di vivere la fede.
«Sono cresciuta in un ambiente in cui tutto ciò che aveva a che fare con la cultura e la religione tradizionali era stato in qualche modo “demonizzato” – ricorda -. L’evangelizzazione nel Nord del Camerun aveva fatto praticamente tabula rasa di tutto quello che c’era prima. Mio padre, ad esempio, non poteva concepire che la Messa venisse celebrata nella nostra lingua locale e non in latino: gli avevano inculcato che tutto quello che aveva a che fare con la sua cultura era male. Ora si stanno riscoprendo e valorizzando gli aspetti positivi delle tradizioni, anche se a volte mi pare che venga fatto solo in modo un po’ nostalgico…».
In Guinea-Bissau non è necessariamente così, anzi. Alcuni temi continuano a far discutere moltissimo la comunità cristiana. Come quello del fanado, ad esempio, l’iniziazione tradizionale, per alcuni incompatibile con quella cristiana, per altri più tollerabile. «Non è stato scontato inserirmi in questo contesto di missione. Anche perché in alcuni ambiti c’è un certo sincretismo che faccio ancora fatica a capire. In Guinea-Bissau, ad esempio, le persone continuano a mantenere i loro nomi tradizionali senza necessariamente aggiungerne uno cristiano quando vengono battezzate. Altre cose, invece, sono proprio difficili da accettare: ad esempio mi ha molto stupito la pratica di affidare i propri figli ad altri familiari perché si pensa che possano crescerli meglio degli stessi genitori. In alcuni casi questo è vero, ma in altri i bambini subiscono abusi fisici ed emotivi. Un altro esempio riguarda le donne che sono grandi lavoratrici e si sacrificano molto per le famiglie; purtroppo però non hanno voce nelle decisioni importanti e spesso vengono sottovalutate anche nella Chiesa».
Suor Suzanne e le altre missionarie dell’Immacolata che lavorano nella promozione delle donne puntano molto sull’educazione e l’alfabetizzazione per renderle autonome e protagoniste della loro vita, capaci di difendere la loro dignità, rispettando anche quella degli uomini. «In questi ultimi anni, stiamo assistendo a un cambiamento di mentalità che è lento, ma ormai in cammino».
Per affrontare tutte queste sfide suor Suzanne mette in campo non solo il suo bagaglio personale e la sua formazione religiosa, ma anche la sua preparazione accademica. Nel suo percorso che l’ha portata a diventare missionaria dell’Immacolata, ci sono stati, infatti, anche molti anni di studio: Filosofia dell’educazione in Camerun, Pedagogia vocazionale all’Università pontificia salesiana di Roma e quindi Psicologia alla Gregoriana. «Belle esperienze di studio con stili diversi – riflette – quello dei salesiani da una parte e quello dei gesuiti dall’altra. Entrambi molto arricchenti».
Nel 2015, suor Suzanne viene destinata alla Guinea-Bissau, ma prima torna in Camerun, nel suo villaggio di Kaélé, nel Nord del Paese, per il mandato missionario. Era cominciato lì il suo cammino di riflessione e di vocazione, a contatto con i missionari del Pime e in particolare Giovanni Malvestio e Antonio Michielan, a cui è rimasta molto legata.
«Padre Giovanni veniva a Kaélé a incontrare i giovani. Era un riferimento per tutti noi. Padre Antonio era come un fratello maggiore per me. Veniva anche a casa nostra, e ancora oggi ha mantenuto legami di amicizia con la mia famiglia. È lui che spesso mi manda notizie dei miei cari. Mi piaceva la loro vita, il loro modo di stare con la gente. Mi faceva sorgere molte domande. Non sapevo però che ci fossero anche delle suore del Pime. Quando l’ho scoperto, ne ho parlato con padre Giovanni. Mi ha detto che voleva lasciarmi libera. Ma io ero proprio arrabbiata con lui!».
Difficile crederle perché lo racconta con molto senso dell’umorismo. Sta di fatto, però, che dopo quella “scoperta” dovuta a un’amica, Suzanne decide di andare a fondo e di incontrare le missionarie che stavano a Bibemi. «Conoscevo le francescane, ma non mi sentivo attratta da loro; mi interessano di più l’apertura missionaria, la possibilità di mettermi al servizio dell’evangelizzazione e dell’incontro con altri popoli».
A Bibemi, incontra suor Ausilia Radaelli, una “veterana” del Camerun, che la porta con sé nei villaggi e con cui condivide le prime esperienze. «Cercavo di capire meglio cosa fare della mia vita. Mi sono detta che dovevo vedere se era lì che il Signore mi voleva. E così ho fatto la domanda, ma la risposta non arrivava… È stato un periodo difficile, anche perché non tutta la famiglia era d’accordo. Mio papà diceva a noi figli che dovevamo decidere autonomamente delle nostre vite per non avere rimpianti. Ci ha sempre lasciati liberi. Mia mamma che era protestante e alcuni zii di religione tradizionale, invece, avevano difficoltà a capire una scelta che implicava il fatto di non avere dei figli e di non avere un lavoro che aiutasse la famiglia».
Suzanne parte comunque per la capitale Yaoundé, dove non era mai stata e dove sperimenta per la prima volta la vita comunitaria: «Vedevo le attività e l’impegno delle sorelle, il loro modo di pregare e di celebrare la Parola: erano momenti forti, che mi facevano sentire bene e che mi hanno aiutata molto. Sentivo che, prima di andare a proclamare la Parola ad altri, dovevo interiorizzarla e farla mia».
Le sue formatrici, suor Cecile e suor Maria Antonia, l’aiutano molto nel suo percorso. Suor Ausilia, in particolare, le sta vicina anche in questo cammino, con tutta la sua saggezza, ma anche con la sua autentica passione per la missione: «Il suo modo di spiegare le costituzioni delle Missionarie dell’Immacolata le rendeva così vere e vive! Non erano solo delle regole; riusciva a comunicare il cuore del nostro carisma, la preoccupazione per l’evangelizzazione, la bellezza del far conoscere Gesù a quelli che non lo avevano ancora incontrato. Tutto questo risuonava in me come qualcosa di ardente: mi suscitava il desiderio di tradurlo in pratica. E mi interrogava: io vengo da una regione dove i cristiani sono pochissimi e mi chiedevo se dovessi partire o restare in Camerun per condividere con altri questo dono. Mi ha cambiato la prospettiva: il lontano poteva anche essere molto vicino. Mi ha fatto vedere e capire tutte le dimensioni della missione».
Per suor Suzanne questo si è tradotto prima in lunghi anni di studio e ora nella missione in Guinea-Bissau dove, dal 2020, è anche coordinatrice delle Missionarie dell’Immacolata.
«Quando sono arrivata in questo Paese, non è stato facile entrare nel nuovo contesto. Mi sentivo un po’ come un bambino che impara a camminare e deve cercare il suo equilibrio. Il mio inserimento ha comportato delle fatiche, ma anche la gioia di entrare in contatto con ciò che è nuovo e diverso per condividere la fede e vivere la comunione cristiana con altri».
Dopo i primi mesi di studio del criolo e di conoscenza del Paese e delle missioni, suor Suzanne ha “ereditato” il lavoro di una missionaria della Consolata che stava partendo per il Kenya e che si occupava di formazione dei formatori per le congregazioni religiose, i missionari stranieri di varie origini – America Latina, Asia, Africa ed Europa – e anche per religiosi e suore locali.
Spesso, inoltre, viste le sue competenze di psicologa, è stata chiamata anche a fare degli accompagnamenti personali. «I disagi più frequenti per i consacrati e le consacrate riguardano le relazioni o le difficoltà di vivere insieme nel rispetto delle differenze. Con i laici, invece, si tratta spesso di forme di depressione che però non sono socialmente riconosciute. Non me lo aspettavo, ma ho incontrato anche alcuni tentativi di suicidio, specialmente tra i giovani, ragazzi delusi e frustrati, che dopo anni di studio e tante fatiche non vedono alcuna prospettiva di futuro. Questo mi interroga molto anche su quello che la Chiesa fa per i giovani qui in Guinea-Bissau. Mi sembra che sia ancora troppo poco».
Il Paese è tra i più poveri e arretrati al mondo e ha una situazione socio-politica sempre molto precaria, ha conosciuto in questi anni una grave crisi del sistema dell’educazione che è peggiorata con la pandemia di Coronavirus. Da tre anni circa, infatti, le scuole pubbliche sostanzialmente non funzionano o funzionano solo parzialmente a causa dei continui scioperi degli insegnanti che non vengono pagati dallo Stato. E con i lockdown imposti dalla pandemia sono rimaste a lungo completamente chiuse senza altre modalità di didattica a distanza. Le uniche che hanno garantito un insegnamento abbastanza regolare sono state le scuole private, comprese quelle cattoliche. «In genere, si tratta di scuole di buon livello – conferma suor Suzanne – che tuttavia non sono accessibili alle fasce più povere della popolazione, specialmente in città come Bissau. Si tratta sfortunatamente di scuole d’élite, in particolar modo le secondarie. Il che ci pone di fronte a un grave paradosso: i governanti non si preoccupano di migliorare il sistema educativo pubblico, ma i loro figli vanno nelle scuole private. È un’ingiustizia; il popolo rimane nell’ignoranza. Mi chiedo chi stiamo formando e se davvero quelli che formiamo potranno essere dei semi di cambiamento per un futuro migliore».