Ha donato al Papa una mitra in pelle di capra. Ma per mons. Virgilio Pante, vescovo di Mararal, non è solo un simbolo. Lui, in mezzo ai pastori samburu ci vive davvero, da molti anni. In una terra difficile, spesso funestata dalla carestia e dagli scontri fra tribù nomadi
A quel tempo, quelle terre erano incontaminate e pacifiche, spazi infiniti e incantati, gli scenari maestosi della Rift Valley, punteggiati qua e là dai pastori samburu al seguito dei loro armenti. Era il 1972. A quel tempo era solo. Lui e a la sua motocicletta.
Molte cose sono cambiate da allora. Molte sono peggiorate. Alcune sono rimaste identiche a se stesse. Come la passione con cui quel giovane missionario divenuto vescovo continua a parlare di quelle terre e della sua gente. Oltre che della sua motocicletta.
Mons. Virgilio Pante, missionario della Consolata e vescovo di Maralal, si trova oggi in una delle zone più tormentate del Kenya, segnata dalla violenza e dalla miseria, afflitta dall’insensatezza dell’uomo e dalla crudeltà della natura.
Marakal è nel cuore della regione samburu, terra arida, semidesertica, che in questi mesi sta vivendo una terribile siccità che uccide uomini e animali. Una terra di popoli fieri e orgogliosi, come i samburu, appunto, che rappresentano l’80 per cento della popolazione. Ma anche i turkana e i pokot vivono qui. Tutti pastori, nomadi o semi-nomadi, dediti ai loro armenti e – spesso – a rubarsi gli animali e farsi la guerra.
«È sempre stato così – spiega il vescovo – perché il bestiame è sinonimo di potere, prestigio, ricchezza… Ma da quando sono aumentate a dismisura le armi automatiche la situazione è precipitata».
Per questo – dopo il master in antropologia in Inghilterra e dopo essere stato vice-superiore dei missionari della Consolata a Nairobi – quando nel 2001 il nunzio apostolico gli comunica la proposta che divenisse vescovo, mons. Pante pensa immediatamente a due cose: alla sua gente e alla riconciliazione.
Prima ancora di decidere, parte. A modo suo: in motocicletta. «Una settimana, come trent’anni prima, in quelle terre dove avevo vissuto a lungo, tra i miei nomadi, a cui ero rimasto legato, nonostante la lunga lontananza. Sono tornato in moto, da solo. Ma quella che ho trovato non era più la stessa terra, la stessa gente. Villaggi bruciati, strutture abbandonate, pascoli lasciati a se stessi… Percorrevo decine di chilometri senza incontrare nessuno. Il deserto, in tutti i sensi, la desolazione. E anche la paura».
Non sono mai state terre facili quelle del nord del Kenya. Le rivalità tra i nomadi hanno radici antichissime. Le razzie facevano parte di dinamiche sociale che venivano affidate alle lance e più spesso agli anziani. Certo, ogni tanto ci scappava il morto, e più e spesso qualche ferito. Ma niente di paragonabile a quanto sta succedendo in questi ultimi vent’anni.
«Oggi, tutti i giovani sono armati – denuncia mons. Pante -; armi automatiche, fucili, mitragliatori, kalashikov, M16… Di tutto. Tantissimi. Ogni famiglia ne ha più d’uno. Ogni tribù un piccolo esercito. E adesso, in caso di razzie di animali e delle successive vendette, ci sono sempre troppi morti e feriti. Difficile ricucire rancori e ferite così profonde».
Anche perché, dietro, non c’è più solo una faccenda di bestiame, o di pascoli e acqua che la siccità ha reso ancora più radi e contesi. Ci sono pressioni politiche e strumentalizzazioni tribali e c’è il business delle armamenti, che si nutre degli «avanzi» delle guerre limitrofe – Sudan, Somalia, Etiopia ed Eritrea… – e semina anche qui morte e distruzione.
«Queste terre sono sempre state neglette – conferma mons. Pante – dimenticate dallo Stato, abbandonate a se stesse. Sono terre povere, aride, non interessano. L’amministrazione non fa nulla, in termini di scuole, sanità, sviluppo economico, e neppure dal punto di vista della sicurezza. E allora la gente si difende da sé, alimentando una spirale infinita di odi e vendette».
Lui, però, ha deciso di mettersi in mezzo, di «inter-cedere». Puntando tutto sulla riconciliazione.
Dopo quel viaggio in moto e dopo aver accettato di diventare vescovo – anzi, di «imparare a fare il vescovo», come dice lui – ha deciso che anche il suo stemma doveva essere un segno preciso e inequivocabile. Di riconciliazione. E così si è messo a disegnarlo, lui stesso. Un leone e un agnello, uno sdraiato accanto all’altro. E sopra la colomba dello Spirito Santo, lo spirito della pace che aleggia su di loro. «Una cosa per certi versi inconcepibile per la mia gente: un leone e un agnello in pace tra loro, in una terra dove regna la legge del più forte! Poi, però, è successa una cosa straordinaria, poco dopo la mia ordinazione. Si è sparsa la voce che una leonessa avesse “adottato” un cucciolo di gazzella, lo allattava e lo accudiva come se fosse figlio suo. Fu un messaggio simbolico molto forte per questa gente che vive in simbiosi con la natura ed è attenta ai suoi segni. Se si riconciliavano gli animali perché non poteva succedere anche tra gli uomini?»
È cominciato così un lungo cammino, che continua a ancora oggi. Un cammino fatto, appunto, di segni prima ancora che di parole, di occasioni di incontro e di festa, e anche di preghiera e dialogo. Con il vescovo, sempre lì, a intercedere dove succede qualche scontro, litigio, furto, vendetta… Accorreva e accorre, ancora oggi, con la sua motocicletta, che è il mezzo più comodo e rapido per muoversi su queste praterie sterminate e infuocate, dove non ci sono strade né indicazioni.
Incontra gli anziani, discute con i giovani. Da qualche tempo ha iniziato a coinvolgere anche le donne. «Una mossa vincente – dice – perché sono loro le vere artigiane della pace, anche se le loro società sono tuttora dominate agli uomini. Eppure sono state loro a promuovere alcuni momenti di riconciliazione particolarmente significativi tra turkana e samburu».
Lo hanno fatto a modo loro, con dei gesti molto concreti, ma che hanno un grande significato simbolico. Come il dono di alcune vacche o la preparazione di una grande festa con cibo e bevande per tutti e l’immancabile turbinio di danze.
«Molti di questi simboli li ho introdotti anche nella celebrazione eucaristica – afferma mons. Pante, che è fortemente impegnato nel dare alla sua Chiesa un volto africano, il volto della sua gente -. Come la benedizione finale, reciproca, segnandoci la fronte con latte e miele, simboli di pace».
La comunità cristiana – circa 30 mila fedeli su una popolazione di 150 mila – condivide questo faticoso cammino. Non senza difficoltà. Difficoltà che si radicano innanzitutto nelle condizioni di vita particolarmente disagiate della gente, che sopravvive a stento e non ha scuole dove mandare i figli e non può permettersi di curarsi in posti tropo lontani e troppo costosi. Ma che sa esprimere gesti grandi di solidarietà e di fede. «È soprattutto grazie ai catechisti – spiega il vescovo – che riusciamo a raggiungere le zone più remote della diocesi. Sono loro che seguono i pastori nei loro spostamenti o li raggiungono nei luoghi in cui abbiamo creato dei punti per il rifornimento dell’acqua. Qui ci sono anche dei piccoli dispensari per curare le malattie più comuni. La promozione umana va di pari passo con un importante e fondamentale lavoro di prima evangelizzazione che per noi rappresenta ancora una priorità. Anche se ormai c’è una comunità cristiana vivace e matura. Che ha prodotto, a sua volta, anche dei missionari. Un bel segno e un incoraggiamento per il futuro».