In un angolo remoto del Ciad, tre missionarie dell’Immacolata danno una testimonianza cristiana semplice ma preziosa. Camminando accanto alla gente
Le loro storie rinviano a mondi lontani: Bangladesh, India, Papua Nuova Guinea. La loro missione, invece, le colloca in un angolo remoto del Ciad, che in questa stagione delle piogge è completamente isolato anche dalla parte di mondo che sta loro più vicina. «La gente è contenta che le suore siano qui», dicono. E, in fondo, sono contente pure loro.
Hilda, Shephali e Irene sono le tre missionarie dell’Immacolata presenti a Koupor, nel Sud-ovest del Ciad, al confine con il Camerun, dove sono arrivate nel febbraio 2019 e dove condividono con padre Marco Frattini del Pime un’esperienza nella più assoluta essenzialità. In passato, c’erano state alcune suore burundesi. Ma per cinque anni non c’è stato più nessuno. «Ci hanno fatto una grande festa quando siamo arrivate!», ricordano. Anche se nessuno le conosceva e la maggior parte della gente non è neppure cristiana. Eppure, queste tre suore, nella più grande semplicità e con un’incredibile mancanza di mezzi, riescono a fare toccare con mano, attraverso piccoli gesti, il senso di rispetto e cura per le persone con cui condividono la loro vita. Già il fatto di essere lì è un segno grande. Perché a Koupor, come pure nei villaggetti circostanti, non c’è niente e nessuno. Non ci sono lo Stato in nessuna sua forma e nessuna ong. Manca tutto: strade, acqua, scuole, centri sanitari… La gente vive in maniera poverissima e sempre più in balìa di un clima impazzito, in bilico tra terribili siccità a devastanti inondazioni. O non c’è acqua o ce n’è troppa.
Adesso è il tempo delle inondazioni, ma fino a qualche settimana fa la savana era arsa da temperature oltre i 50 gradi e l’acqua e il miglio – elemento base dell’alimentazione – erano diventati beni rarissimi. Con la stagione delle piogge, invece, laddove la terra appariva rugosa e solcata da profonde crepe, si sono creati veri e propri laghi. Che hanno accentuato ancora di più la condizione di isolamento di questo villaggio e di tutta la zona. Anche le missionarie, che normalmente si spostano in bicicletta o moto su piste di sabbia, devono usare la canoa per superare queste distese d’acqua che sempre più spesso si associano a eventi climatici devastanti che provocano distruzione e sfollamento di persone.
È una terra estrema quella in cui vivono la loro missione queste tre suore di origini, generazioni ed esperienze diverse, che oggi si trovano a condividere la gioia di testimoniare il Vangelo in questa parte di mondo anche attraverso gesti di vicinanza e carità. Suor Hilda, indiana, è la veterana dal gruppo. Alle spalle ha un’esperienza di 36 anni in Camerun, prima nel Sud ad Ambam, con i “pionieri” del Pime, e poi nell’Estremo Nord. «Quando sono arrivata, era una regione molto povera e abbandonata, ma ho visto grandi cambiamenti. Qui, invece, non c’è niente». La missione di Koupor è una sfida costante. Non solo per il clima, ma soprattutto per l’arretratezza del posto. Anche le cose più semplici diventano complicate. Lei lo sperimenta ogni giorno nel dispensario che hanno ristrutturato. Tutto molto essenziale, ma pulito e ordinato: ci sono persino un piccolo laboratorio, i pannelli solari e una pompa dell’acqua che serve anche le case di padre Frattini e delle suore. «Però non ci sono le medicine – ci dice suor Hilda, mostrandoci il magazzino quasi vuoto -. Il governo non dà nulla se non i vaccini e non è facile procurarsele perché i trasporti sono estremamente difficili. Normalmente le prendiamo dalla Caritas che paga anche i salari del personale».
Attualmente ci sono due infermieri e una levatrice. Ma i pazienti sono pochissimi così come le donne che vengono a partorire: cinque nell’ultimo mese. Quasi tutte continuano a farlo a casa e si recano al dispensario solo in caso di complicazioni, magari facendo viaggi impossibili in moto o a dorso d’asino. L’infermiere Valentin ci mostra il registro delle visite: meno di tremila pazienti all’anno, una media di nove al giorno. «La gente non viene al dispensario perché spesso non ha neppure i pochi spiccioli che servono per pagare visite e medicine, ma anche perché non sa nemmeno che può farsi curare qui. Per questo stiamo facendo molto lavoro di sensibilizzazione e campagne di vaccinazione nei villaggi – precisa suor Hilda -. Ma è una questione di mentalità. La persone spesso non capiscono l’importanza di andare al dispensario e neppure di mandare i bambini a scuola…».
È quello che sperimentano anche le altre due religiose che si dedicano alla formazione delle ragazze e alla pastorale oltre che alle scuole della missione. Suor Shephali è appena rientrata dal Bangladesh, dove si è recata in vacanza dopo la lunga assenza “forzata” dovuta alla pandemia di Covid-19. Anche lei ha alle spalle un’esperienza di 17 anni in Camerun. E poi si è rimessa in gioco a Koupor, poco al di là della frontiera in un territorio simile e con popoli simili, ma con sfide molto diverse. Il suo impegno principale è con il gruppo di ragazze del corso di taglio e cucito che diventa occasione anche per una formazione più ampia, portata avanti pure nei momenti extra scolastici, dal momento che vengono accolte in una piccola casa all’interno della missione.
«Il corso è articolato in tre anni. I primi due sono frequentati da una quindicina di ragazze ciascuno. Il terzo solo dalle migliori», spiega suor Shephali, mentre cerca di cominciare la lezione con ragazze che arrivano in ritardo, bambini che piangono, altri che scappano via… -. Non è facile dare una continuità a questo corso, perché loro stesse vivono nella precarietà. Alcune cominciano e poi non vengono più, altre si sposano, altre ancora hanno figli. Qualcuna adesso viene con il suo bambino…». Il tutto va gestito con molta pazienza e determinazione. Suor Shephali sa bene che per queste ragazze è un’occasione unica non solo per imparare un mestiere e contribuire alle misere finanze delle famiglie, ma anche per avere un minimo di formazione. «Molte di loro sono analfabete – dice -. Per questo, oltre ai corsi di taglio e cucito, facciamo un po’ di alfabetizzazione, lingua francese, corsi di igiene e cucina, e quello che qui viene chiamato “Eva”: educazione alla vita e all’amore».
Purtroppo in queste zone, spesso le bambine vengono escluse dal sistema educativo, che peraltro in Ciad è molto precario. La missione sta costruendo diverse scuole o sostituendo le aule realizzate con gambi di miglio e paglia con edifici in mattone. Ma poi mancano insegnanti qualificati e quelli che ci sono non vengono pagati. La scuola di Koupor – la prima di tutta la zona fondata dai missionari oblati – e quelle circostanti sono tutte comunitarie. Ovvero vengono gestite da un comitato di famiglie che devono farsi carico delle spese e pure dei salari. A Koupor, dove ci sono 230 studenti, lo staff è al completo e normalmente riesce a rispettare il programma. Ma è un’eccezione. La missione, inoltre, fornisce la maggior parte dei libri, ma non sempre ce ne sono abbastanza per tutti gli insegnanti. Per questo, c’è anche una piccola biblioteca che viene gestita da alcuni volontari insieme a suor Irene.
Originaria della Papua Nuova Guinea, è la “giovane” del gruppo: prima di arrivare in Ciad, è stata alcuni anni in Italia e sette mesi in Camerun. Adesso si occupa delle attività pastorali insieme a padre Frattini e della catechesi di bambini e giovani. «Quello di Koupor – riflette – è un contesto molto isolato e chiuso, in tutti i sensi, che si sviluppa molto lentamente. Lo sperimentiamo continuamente andando nei villaggi per la pastorale. Quello che facciamo è dare innanzitutto un sostegno ai catechisti che portano avanti il grosso del lavoro e verifichiamo il cammino fatto dalle comunità cristiane. La gente è sempre accogliente, anche se spesso non ha nulla».
I bambini, poi, sono sempre molto festosi. Sono soprattutto le loro voci che riempiono il silenzio della sera, quando il buio scende e avvolge tutto. Un’unica tenue luce, quella della cappellina della missione, illumina le tenebre e presto si riempie di canti e preghiere. Padre Frattini e le tre missionarie dell’Immacolata guidano una piccola processione di bambini, donne e giovani che si ritrovano in questo edificio circolare, simile alle abitazioni del posto. I suoni del tam tam danno il ritmo ai canti. La preghiera dà senso alla giornata. È un momento prezioso di ringraziamento, affidamento e speranza nel flusso di vite segnate dalla precarietà.