Un nuovo rapporto di Cafod evidenza le difficoltà dei coltivatori africani dovute alle politiche della Banca Mondiale. A rischio la diversità delle sementi e la sicurezza alimentare
La Banca Mondiale sta venendo meno al suo dovere di contrastare la povertà, promuovendo un modello agricolo che avvantaggia le grandi imprese agroalimentari a spese degli agricoltori più poveri del continente africano. È quanto emerge dallo studio “Seminare i semi della povertà: come la Banca Mondiale danneggia gli agricoltori poveri” pubblicato nel nuovo report da Cafod, l’Agenzia cattolica per lo sviluppo della Chiesa cattolica d’Inghilterra e Galles.
La Banca Mondiale adotta politiche di finanziamento che richiedono programmi di sussidi e nuove leggi sulla certificazione delle sementi prima di concedere prestiti. Con l’introduzione di queste leggi è diventata illegale in Paesi come Kenya, Sierra Leone e Liberia la possibilità per le comunità locali di continuare il loro sistema secolare di coltivazione, scambio e vendita delle proprie sementi.
I governi di questi Paesi sono, quindi, costretti a sovvenzionare costose sementi e fertilizzanti brevettati, spesso forniti dai giganti dell’agroalimentare: centinaia di milioni di dollari l’anno di fondi pubblici che dalle nazioni più povere sono trasferiti alle grandi imprese, mettendo i coltivatori locali ancora più in difficoltà.
«Per secoli, gli agricoltori hanno condiviso i semi e li hanno coltivati in modo da potersi adattare alle condizioni ambientali locali e produrre cibo a beneficio delle comunità. Ma questa pratica secolare viene sistematicamente distrutta dalla Banca Mondiale a favore di un approccio che avvantaggia le grandi imprese, invece di affrontare la fame. Criminalizzare gli agricoltori non serve a combattere la fame nel mondo», afferma Ruth Segal, coautrice del rapporto e responsabile per le politiche dei sistemi alimentari di Cafod.
L’impatto è stato disastroso in Africa, non solo perché l’80% degli agricoltori si affida al sistema tradizionale di scambio e condivisione delle proprie sementi, ma anche per la compromissione della diversità genetica. L’accesso a un’ampia varietà di sementi, infatti, è anche uno strumento di resilienza al clima dei sistemi agricoli. Per migliaia di anni, gli agricoltori hanno sviluppato colture in grado di resistere ai parassiti e alle malattie locali e di prosperare nel clima e nei terreni autoctoni; hanno coltivato e selezionato i semi delle piante che crescevano meglio nei loro campi, creando così una vasta gamma di cereali, legumi, ortaggi e frutta.
Purtroppo, la produzione globale di colture sta diventando sempre più omogenea. Delle oltre 6.000 specie di piante commestibili coltivate nel corso dei secoli, solo 9 rappresentano oggi più del 65% di tutta la produzione.
A tal proposito, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) ha dichiarato che l’accesso a sementi diversificate è una strategia chiave per contrastare il rischio di riduzione della produzione alimentare a causa dell’impatto del cambiamento climatico.
«Non posso permettermi di acquistare semi per ogni stagione di semina. Con le sementi indigene sono sicura di poter ottenere quelli di cui ho bisogno e quando ne ho bisogno. Le sementi indigene rappresentano la nostra cultura, lo stile di vita del nostro popolo, una ricca tradizione che è stata tramandata di generazione in generazione. Il governo dovrebbe modificare queste leggi punitive sulle sementi e permetterci di condividere e vendere liberamente i semi indigeni», sostiene Veronica Kiboino, agricoltore dalla Contea Baringo, in Kenya.
L’approccio promosso dalla Banca Mondiale ha anche un impatto negativo sul clima e sull’ambiente. Gli input chimici che l’organizzazione promuove utilizzano combustibili fossili e, secondo lo studio, possono danneggiare il suolo e contaminare l’acqua di cui gli agricoltori hanno bisogno per coltivare il cibo. Ed è paradossale se consideriamo che la stessa Banca Mondiale, in una revisione del 2022, aveva dichiarato che «l’uso eccessivo o scorretto di fertilizzanti minerali contribuisce a problemi ambientali, tra cui la contaminazione delle acque da nitrati e fosfati e l’aumento delle emissioni di gas serra».
Il rapporto di Cadof mostra anche come la Banca Mondiale misuri il successo del proprio intervento quasi esclusivamente sulla capacità del settore privato di vendere sementi e fertilizzanti. In un rapporto del 2014 metteva infatti in risalto il fatto che il 100% delle sementi certificate in Burkina Faso, Zambia e Ghana fosse stato fornito dal settore privato. Eppure, secondo i dati Fao Stat, il numero di persone che soffrono la fame in questi Paesi nel triennio 2018-2020 è aumentato del 27% in Burkina Faso (da 7.6 a 9.7 milioni), del 33% in Zambia (da 8.1 a 10.8 milioni) e dell’8% in Ghana (da 10.7 a 11.6 milioni) rispetto al triennio 2014-2106.
Pertanto, Cafod chiede alla Banca Mondiale di smettere immediatamente di appoggiare leggi restrittive sulle sementi, porre fine al suo sostegno a sementi e fertilizzanti costosi che non garantiscono una riduzione della povertà, della fame o della vulnerabilità agli shock esterni e di promuovere modelli di produzione agricola più rispettosi dell’ambiente, investendo nei piccoli agricoltori.