La famiglia salverà il mondo

La famiglia salverà il mondo

Una vita con le braccia aperte, in Africa come in Italia dove hanno creato, a casa loro, una comunità di per minori. Ora, da pensionati, Gigi e Gabriella Santambrogio sono ripartiti per il Camerun con l’Alp. Per loro non è difficile capire perché Papa Francesco, a cinque anni dalla pubblicazione dell’Amoris Laetitia, abbia voluto dedicare alla famiglia un anno che si apre proprio oggi

 

«Quando Gigi lavorava con i migranti per la diocesi di Milano, a volte mi telefonava: “Ci sarebbe un ragazzo che ha bisogno di aiuto…”. E io gli dicevo: “Ok, portalo a casa! Lo ospitiamo noi per qualche giorno”».

Aneddoti così, decisamente fuori dal comune, Gabriella e Gigi Santambrogio ne hanno tanti da raccontare sulla loro vita insieme, tra le savane umide del Nord del Camerun e il loro appartamento di Giussano, cittadina nella Brianza milanese dove entrambi sono nati. Sempre insieme, là dove li portava la Provvidenza – e un’intraprendenza notevole! -, facendo affidamento sulle risorse che scoprivano nascoste nella loro coppia e, poi, in una famiglia senza troppi confini, capace di moltiplicare i legami e l’affetto. E che anche oggi, in quell’età della pensione che per molti coincide con un meritato riposo, li ha spinti a ripartire per un nuovo progetto come volontari dell’Associazione Laici Pime.

Per Gigi e Gabriella non è difficile capire perché Papa Francesco, a cinque anni dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia, abbia voluto dedicare ufficialmente un Anno – a partire dal 19 marzo – proprio alla famiglia.

Loro ne avevano capite le potenzialità già dal tempo del lungo fidanzamento a distanza – ben cinque anni, dal 1981 -, mentre Gabriella studiava ancora da infermiera e Gigi, partito come volontario con la ong Coe, faceva l’educatore in un progetto in Camerun. «Ci vedevamo una volta all’anno quando andava bene e ci sentivamo al telefono per i compleanni e le feste comandate», racconta Gigi, ricordando le rare e costose conversazioni all’apparecchio delle Poste di Mbalmayo, «ma in compenso curavamo la nostra relazione per lettera: una modalità in cui era più facile condividere sentimenti e pensieri e conoscerci a vicenda, scoprendo quello sguardo di attenzione verso l’altro che ci accomunava».

Poche settimane dopo il rientro di Gigi dalla missione, nell’estate del 1986, i due giovani si sposarono («ad unirci in matrimonio fu il fondatore del Coe don Francesco Pedretti, che per noi è stata una guida spirituale fondamentale», raccontano). E poi – giusto il tempo di preparare le valigie, questa volta doppie – partirono insieme per l’Africa. Destinazione: Djamboutou, quartiere di Garoua, nel Nord del Camerun, dove l’allora arcivescovo Christian Tumi – oggi cardinale – aveva chiesto al Coe una presenza in un contesto nuovo dove far partire un intervento sulla sanità. La realtà perfetta per Gigi e Gabriella, che dall’84 lavorava come infermiera all’ospedale di Giussano (e da cui aveva ottenuto un’aspettativa per andare in missione).

Racconta il marito: «Confesso che all’inizio ero timoroso delle limitazioni che le nuove responsabilità di marito avrebbero potuto comportare… Avevo un po’ paura di perdere la libertà sperimentata nella mia missione da single, quando visitavo i villaggi tornando magari la sera tardi, dovendo badare solo a me stesso. Ma presto mi accorsi che quei timori erano infondati: al contrario, essere in due era come raddoppiare la forza di ciò che facevamo e ci permetteva di avere un altro sguardo sulle cose, di confrontarci».

La coppia si immerse quindi nei bisogni di quel quartiere di passaggio che cresceva velocemente, attirando persone di varie etnie, alcune trasferitesi dalle montagne. «La grande sfida era sensibilizzare alla salute gruppi diversissimi, tra cui rifugiati ciadiani o del Centrafrica, ognuno dei quali parlava la sua lingua per un totale di almeno sette o otto idiomi differenti», raccontano i coniugi Santambrogio. «Si creava un Comitato di salute per ogni gruppo etnico e si formavano animatori per l’educazione sanitaria, cercando insieme di costruire un tessuto sociale». Parlare di salute, poi, significava «parlare di bambini, ruolo della donna, educazione sessuale, pianificazione familiare… E ancora fare capire che per stare bene bisogna seguire alcune regole igieniche, che ci sono strumenti di prevenzione come le vaccinazioni e che la malattia non è legata a tabù infranti o maledizioni».

E se essere marito e moglie rendeva più semplice confrontarsi con la gente sulle dinamiche familiari, essere genitori avrebbe dischiuso un mondo nuovo di relazioni e incontri: «Nell’88 nacque il nostro primo figlio, Matteo. All’inizio non mancarono i timori sull’idea di restare in Africa con un bimbo piccolo – in Italia ci dicevano: siete matti! -, ma presto scoprimmo una nuova dimensione. Matteo era un passepartout per la famiglia: anche nei villaggi più lontani da Djamboutu, dove ci capitava di recarci, tutti lo conoscevano, lui era flessibile, capiva diverse lingue, faceva amicizia con tutti». E la gente trovava più naturale avere a che fare con una famiglia “normale”, tanto simile a quelle locali. «Io parlavo con le mamme dello svezzamento, davo consigli su come curare la diarrea, c’era fiducia, che fossero musulmane, cattoliche o protestanti», racconta Gabriella.

Dopo quattro anni, alla vigilia del rientro in Italia, sufficienti giovani locali erano stati formati come infermieri e a Djamboutou era sorto il nuovo dispensario Notre Dame des Apôtres, che sarebbe presto diventato un ospedale a tutti gli effetti.

All’inizio degli anni Novanta, così, per i Santambrogio si apriva un nuovo capitolo: necessità familiari, con la mamma di Gabriella non vedente che aveva bisogno di assistenza, li avevano riportati a Giussano, e bisognava inventarsi un’altra quotidianità. Mentre Gabriella riprese il suo lavoro all’ospedale, Gigi fu assunto come coordinatore presso la Segreteria per gli Esteri della Diocesi di Milano, voluta dal cardinale Martini per l’accoglienza e l’inserimento dei migranti. «Al Centro d’ascolto venivo in contatto con persone di ogni provenienza e fede, con cui si cercava di strutturare un progetto, e spesso il problema più evidente era quello dell’accoglienza: a quella gente mancava non solo un posto letto ma soprattutto un contesto umano, relazionale. E così entrava in gioco la nostra sensibilità di famiglia, che nel frattempo si era allargata, visto che nel ’92 era nato Marco».

Ricorda Gabriella: «A volte ospitavamo qualcuno che aveva bisogno di un aiuto urgente: i bambini cedevano la loro cameretta e si spostavano a dormire temporaneamente sul divano, visto che l’appartamento non era molto grande». E non protestavano? «No! Noi spiegavamo le situazioni di quelle persone, spesso ragazzini, e loro si immedesimavano nelle loro difficoltà, dicevano: “Meno male che hanno trovato noi!”. Sono cresciuti imparando la spiritualità della restituzione: dare indietro un po’ delle cose belle che noi abbiamo ricevuto».

Naturale, per una famiglia così, condividere anche il calore stesso degli affetti: per cinque anni le porte di casa si aprirono a un bimbo eritreo con problemi di salute, accolto in affido, finché nel 2004 quello che fino ad allora era stato uno stile di vita spontaneo si trasformò in una scelta strutturata, con la nascita della comunità per minori La Piroga. «Si trattava di ragazzi allontanati dai propri nuclei familiari dal Tribunale per i Minorenni. Noi, che intanto ci eravamo trasferiti in una casa più grande, li accoglievamo e ci prendevamo cura di loro con il supporto di una cooperativa creata appositamente, con un’équipe di operatori e una psicologa». Da allora, qui hanno trovato casa 42 minori e oggi sono Marco e Matteo, che nel frattempo sono cresciuti e si sono formati come educatori, a portare avanti l’esperienza della Piroga, trasformata in una comunità diurna.

«Evidentemente, nonostante le fatiche che a volte abbiamo vissuto, visto che l’accoglienza di adolescenti non è sempre facile, quest’avventura è stata arricchente per la nostra famiglia!», commentano i coniugi Santambrogio. Anche perché è stata sempre condivisa con tutte le realtà educative del territorio, dalle istituzioni alle parrocchie fino alla comunità islamica. E, in prima fila, le famiglie. «Abbiamo inventato percorsi chiamati “Genitori al Timone”, in cui esperti approfondiscono i temi dell’accoglienza ma anche della genitorialità a tutto campo, dall’utilizzo dei social media all’autonomia dei figli».

Gigi e Gabriella, insomma, non hanno mai avuto tempo per annoiarsi. Eppure, la pienezza della missione, «quella in cui vivi un ritmo diverso e riesci a gustare le relazioni umane in un modo difficilmente pensabile altrove», è sempre rimasta nel loro cuore. Insieme al desiderio di sperimentarla di nuovo. «Ecco perché, con la prospettiva della pensione, ci siamo avvicinati all’Associazione Laici Pime, per valutare una nuova esperienza in Africa come coppia».

È iniziata così la conoscenza reciproca, con un percorso di formazione e una prima presenza di Gigi l’anno scorso a Mouda, in Camerun, dove ha vissuto cinque mesi presso la fondazione Betlemme. E poi, a gennaio, la partenza ufficiale. «Opereremo soprattutto al servizio di ragazzi con disabilità e delle loro famiglie, focalizzandoci anche sulla sensibilizzazione della comunità per favorire l’accettazione e l’integrazione di queste persone “speciali”», spiega la coppia.

Ma cosa c’è alla base di un’intera vita familiare all’insegna del dono e dell’accoglienza? «Nel nostro caso si tratta della fede. Abbiamo cercato di prendere sul serio le parole del Vangelo, quelle in cui Gesù si presenta nel povero, nel carcerato, nell’affamato… Il resto è venuto di conseguenza».