Promosso 15 anni fa, è un progetto enorme che attraversa 11 Paesi del Sahel e che dovrebbe contrastare l’avanzata del deserto. A oggi, però, si vedono pochissimi risultati, anche a causa dell’instabilità politica e dei conflitti che destabilizzano la regione. Il caso del Senegal
«Cinquant’anni fa qui c’era una grande foresta e avevamo paura di entrarci perché c’erano animali selvatici ovunque. E c’erano acque chiare e prati. Faceva fresco e la mattina era il canto degli uccelli che ci svegliava». A parlare è un anziano della regione del Ferlo, nel Nord del Senegal, al confine con la Mauritania. Dove adesso è quasi tutto deserto. E dove si sta lavorando per realizzare un tassello di quella che dovrebbe essere la Grande Muraglia Verde, una gigantesca barriera destinata non solo a frenare l’avanzata del deserto, ma anche ad assorbire 250 milioni di tonnellate di anidride carbonica, a contrastare la drammatica insicurezza alimentare che interessa tutto il Sahel e a creare milioni di posti di lavoro, in particolare per i giovani, arginando così pure i flussi migratori. Si tratta di un progetto enorme, promosso 15 anni fa, di cui, però, si vedono ancora poche tracce. Evocata nel 2005 dagli allora presidenti di Senegal e Nigeria e avviata nel 2007, la Grande Muraglia Verde avrebbe dovuto dispiegarsi in 11 Paesi, dalla Mauritania a Gibuti, per 8 mila chilometri di lunghezza e una quindicina di larghezza. Ma dei cento milioni di ettari che avrebbero dovuto essere riforestati entro il 2030, sinora se ne contano solo cinque.
«Siamo indietro con l’adattamento al cambiamento climatico e abbiamo bisogno di fondi», ha ripetuto recentemente il presidente del Senegal Macky Sall, che ha chiesto nuovi finanziamenti per il progetto di riforestazione. Ma di soldi, in realtà, ne sono già arrivati molti. E non tutti sono andati a buon fine.
L’Agenzia panafricana della Grande Muraglia Verde avrebbe già ridistribuito 170 milioni di euro di crediti, di cui 132 provenienti da donatori esterni all’Africa. Ma sono proprio i principali finanziatori – tra cui Banca Mondiale e Unione Europea – a contestare questi dati: si stima infatti che sarebbero già stati investiti 768 milioni di euro, molti dei quali però finiti nei meandri della corruzione e del clientelismo. Lo scorso anno, la comunità internazionale si è nuovamente impegnata a contribuire al progetto con 12 miliardi di euro, nella consapevolezza delle molte e cruciali ripercussioni che potrebbe avere.
A oggi, però, lungo quella che dovrebbe essere una barriera verde, invece di miliardi di alberi proliferano gruppi criminali e terroristici, trafficanti di armi, droga e esseri umani, e si moltiplicano i conflitti intercomunitari e le situazioni di instabilità politica. Il tutto aggravato da una crisi climatica senza precedenti, con il continuo aumento delle temperature, la diminuzione delle precipitazioni e fenomeni estremi che contribuiscono a provocare esodi massicci di persone.
«Sono convinto che bisogna trovare un equilibrio tra piante, animali e popolazioni», sostiene Haidar el Ali, 69 anni, origini libanesi, già ministro senegalese dell’Ambiente e della Protezione della natura e successivamente della Pesca e degli Affari marittimi; dal 2019 e sino a pochi mesi fa, è stato anche direttore generale dell’Agenzia della Grande Muraglia Verde-Senegal. Ma innanzitutto è un convinto ecologista che nel corso di tutta la sua vita ha portato avanti battaglie su molti fronti per la salvaguardia dell’ambiente terrestre e marino. Prendendo anche posizioni scomode. Proprio come quelle che riguardano la Muraglia Verde.
«Si parla di molti chilometri, ma in realtà non c’è quasi niente – afferma senza mezzi termini -. I problemi, però, non sono a livello delle popolazioni locali. Sono altrove. I fondi stanziati, ad esempio, sono spesso captati da istituzioni internazionali che non producono alcun risultato sul terreno. Queste strutture hanno costi di gestione enormi e realizzano solo rapporti e conferenze. La cosa che mi scandalizza di più, però, è che usano le immagini della nostra miseria, della miseria delle nostre mamme, per raccogliere fondi che servono innanzitutto a autosostenersi».
Da sempre la strategia di Haidar el Ali – che porta avanti anche un grande progetto nel Sud, in Casamance, dove ha piantato 150 milioni di mangrovie che assorbono CO2 e proteggono la costa dall’erosione, e si è molto speso per contrastare il traffico illecito di legname e la pesca eccessiva – è quella di lavorare sul posto con la gente. «Riesco a ottenere dei risultati perché le popolazioni mi accompagnano e hanno fiducia. Mi vedono lavorare sul terreno, sono quotidianamente con loro. Non vado in convogli di mega macchine climatizzate o in hotel di lusso per raccontare in seminari cose che non capiscono e poi andarmene via», afferma polemicamente. «A mio avviso – aggiunge – l’obiettivo della Grande Muraglia Verde dovrebbe essere quello di portare le popolazioni a vivere in armonia con il loro ecosistema, traendone i mezzi di sussistenza attraverso attività durevoli nel rispetto della biodiversità e dell’ambiente».
Certo, anche in Senegal, come in tutto il Sahel, il tracciato della Grande Muraglia Verde si snoda in una regione particolarmente difficile, dove le temperature sono altissime e la pluviometria estremamente scarsa: si va mediamente dai 100 ai 300 millimetri l’anno, sino a un massimo di 400. La regione del Ferlo, in particolare, è la più arida del Paese ed è qui che ha la sua base principale l’Agenzia senegalese. Sono pochissime le specie vegetali che resistono a simili condizioni climatiche, ma anche al passaggio di greggi e mandrie. Il problema, dunque, non è solo quello di seminare e rimboschire, ma anche di proteggere le piante dagli animali. Attualmente, in Senegal, si è lavorato su 130 mila ettari di terra; metà circa sono stati riforestati, il resto solo recintato.
«Sfortunatamente – fa notare Haidar el Ali – le questioni ambientali necessitano di molto tempo. Un programma ha bisogno di essere implementato e seguito almeno nell’arco di vent’anni per vedere i primi risultati. Non si possono dunque sovrapporre le scadenze ambientali a quelle elettorali. Ma la politica è complicata!», ammette con un sorriso amaro. La politica, del resto, l’ha fatta pure lui. È stato due volte ministro, oltre che leader del Partito Verde del Senegal, un Paese in cui – come in tutti gli altri interessati dalla barriera verde – la coscienza ambientale è molto scarsa, non solo a livello politico, ma anche della popolazione.
«In realtà – sostiene – la sensibilità relativa alle questioni ambientali sta crescendo soprattutto tra i giovani, ma non solo. La gente se ne rende conto ogni giorno nella propria vita. Le comunità di pescatori, ad esempio, si lamentano perché non c’è più pesce nell’oceano, in quanto le acque si sono surriscaldate e lo sfruttamento è eccessivo; quelli che vivono nelle foreste ne hanno coscienza perché stanno scomparendo; gli agricoltori se ne rendono conto perché le piogge sono divenute più irregolari e i suoli si stanno salinizzando. Le persone vivono queste situazioni nel quotidiano».
Nel quotidiano, però, si faticano a vedere progetti e soluzioni efficaci, duraturi e sostenibili. In Senegal ci sono molte iniziative a livello governativo, di cooperazione internazionale e soprattutto dal basso per contrastare l’impatto dei cambiamenti climatici specialmente in un settore vitale come quello dell’agricoltura, che ne è particolarmente colpito. Ma anche per cambiare una mentalità diffusa specialmente tra i giovani che considerano degradante il lavoro nei campi e cercano in tutti i modi di partire, andando a ingrossare i flussi migratori interni e quelli verso l’Europa.
Ma cambiare i sistemi di produzione – magari riscoprendo anche colture locali – così come consolidare i cambiamenti culturali richiede molto tempo. Intanto, molti si chiedono se ha ancora senso portare avanti progetti mastodontici come quello della Grande Muraglia Verde, continuando a investire ingenti fondi per realizzarla.
«In tutti i Paesi interessati – fa notare Haidar el Ali – anche in quelli segnati da conflitti, come il Burkina Faso o il Mali, è possibile trovare persone che si battono e che continuano a piantare alberi, perché ci credono veramente. È necessario però che le istituzioni internazionali come l’Unione Europea o la Banca Mondiale comincino a fare sul serio e finanzino coloro che già fanno qualcosa e che lo fanno sul terreno, che sono conosciuti e riconosciuti dalla loro gente».
E tuttavia, fa notare, non dobbiamo dimenticare le cause profonde della situazione drammatica che stiamo vivendo. «Abbiamo creato un modello economico insostenibile, fondato su una crescita illimitata in un mondo dove tutto ha un limite – sostiene Haidar el Ali -. Un modello che permette a una élite ristrettissima di arricchirsi enormemente, trasformando le risorse della terra in stock option che vengono messe nelle banche svizzere. Un modello che è una vera e propria disgrazia per il pianeta e l’umanità e contro il quale dobbiamo continuare a lottare».
(Servizio realizzato nell’ambito del progetto Nouvelles Perspectives)