Un film in uscita il 24 agosto in Italia mostra per la prima volta i combattenti senegalesi e di altre colonie africane della Francia che si sono sacrificati per una madrepatria a loro estranea. Trentamila di loro sono morti in Europa
Non mancano i film sulla Prima Guerra Mondiale nella storia del cinema. Eppure, “Io sono tuo padre” di Mathieu Vadepied, in uscita il 24 agosto prossimo nelle sale italiane, è una sorpresa. E vale la pena vederlo, perché racconta una storia sconosciuta ai più: quella delle truppe africane che hanno combattuto per la Francia, sul fronte europeo. Trentamila morti sul campo, per difendere una patria sconosciuta in cui non avevano mai messo piede prima e di cui molti non parlavano neppure la lingua. Sono i tirailleurs – questo è il titolo originale del film, presentato a Cannes nel 2022 – fanti reclutati in Senegal e in altri Paesi che all’epoca erano possedimenti coloniali francesi, come Guinea-Conakry, Mali, Niger, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Sudan.
Come il film ci mostra nelle prime scene, spesso erano tutt’altro che volontari ansiosi di combattere. Quando, intorno al 1917, la guerra in trincea continua a fagocitare morti senza dar segno di giungere a una conclusione, il comando francese si rende conto di non avere abbastanza riserve di uomini. Le colonie africane francesi appaiono un buon serbatoio di carne da cannone. I giovani vengono rastrellati nei villaggi, addestrati alla bell’e meglio e costretti a partire per l’Europa. Fra di loro, c’è Thierno Diallo, un ragazzino fulani che sta ancora imparando a fare il pastore al fianco del padre Bakary (interpretato da un incredibile Omar Sy). Quando quest’ultimo scopre che il suo unico figlio maschio è stato catturato dai francesi, si precipita dai militari per offrirsi volontario. Il suo vero obiettivo è riprendersi il ragazzo, organizzando una fuga per riportarlo al villaggio.
Ovviamente il suo progetto fallisce e i due Diallo si ritrovano catapultati nelle retrovie di una guerra per loro inimmaginabile, in Francia. Il loro battaglione ha un giovane tenente francese al comando, affiancato da ufficiali e da una truppa quasi tutta di colore. I ragazzi africani, con indosso l’uniforme francese e in mano il fucile, attendono il loro destino, che è quello di tutti i soldati: finire in trincea e lanciare un attacco al nemico. Come abbiamo visto in molti altri film sul primo conflitto mondiale, si lotta e si muore per pochi metri di terra, riconquistati e poi persi, in un tira e molla esasperante e a prezzo di molti caduti.
Bakary non si rassegna: cerca la solidarietà di altri fulani, ma scopre che in guerra ognuno pensa per sé, solo i più forti sopravvivono e il senso di fratellanza africana è rimasto al villaggio. La fuga rimane il suo obiettivo per salvare Thierno dalla carneficina. L’evolversi della situazione, però, stravolge i suoi piani. Il ragazzo diventa amico del tenente e viene promosso caporale. A questo punto, è lui a non volersene più andare. Desidera essere un eroe al fianco dei suoi compagni. E con il padre, che fa di tutto per proteggerlo, si consuma una rottura. Il distacco è generazionale, ma anche culturale. In Africa, un ragazzo poco più che adolescente non avrebbe mai messo in discussione la parola di un anziano, per una questione di rispetto. In Europa e in guerra le regole sociali si ribaltano e d’improvviso il figlio conta più del padre. È un graduato, è coraggioso e la stima dei suoi superiori lo fa sentire un uomo. Bakary deve rassegnarsi: Thierno deve essere libero di combattere la sua guerra.
Non vi sveleremo le sorti dei due protagonisti. A parte qualche tono un po’ retorico, soprattutto nella parte finale, Io sono tuo padre ha il merito di regalarci uno sguardo africano sulla Prima Guerra Mondiale, scevro di una visione manichea in cui i bianchi sono i cattivi e i neri i buoni. La guerra tira fuori il peggio dell’uomo, e chiunque vi partecipi ne rimane coinvolto. Non ci si può salvare senza avere le mani sporche di sangue. La guerra è morte, ma è anche una miriade di sopravvissuti mutilati nello spirito e nel corpo, un prezzo pagato anche dagli africani.
Il film mostra chiaramente la promessa francese fatta ai combattenti: il loro sacrificio per la madrepatria farà di loro dei cittadini e non più degli indigeni. Parole al vento. I tiralleur senegalesi hanno combattuto anche nella Seconda Guerra Mondiale e il loro corpo è rimasto attivo fino al 1960. Ma la madrepatria francese, che ha aperto le porte a molti di loro, non li ha comunque considerati degni di diventare cittadini.
Nel 2016 una raccolta firme per far avere ai sopravvissuti l’agognata cittadinanza era stata firmata da molte personalità e anche dallo stesso attore Omar Sy, il Bakary Diallo del film. Nel 2017, l’allora presidente François Hollande ha conferito il passaporto francese a 28 tirailleur residenti Oltralpe che ne avevano fatto richiesta. Per i veterani, ormai di età compresa fra gli 80 e i 90 anni, è stato un gesto simbolico che ha riconosciuto finalmente il “debito di sangue” che la Francia aveva con questi africani. Ma è un conto che rimane aperto che include momenti drammatici, come il massacro di Thiaroye, in Senegal, quando il 1° dicembre 1944 i militari francesi hanno aperto il fuoco sui tirailleur reduci dalla prigionia tedesca che chiedevano di essere pagati quanto li spettava. Ne sono rimasti a terra almeno 35, ma alcune fonti parlano di un numero più alto. Una pagina vergognosa della storia coloniale francese.
A marzo di quest’anno una dozzina di tirailleur su 37 ancora in vita, molto anziani, hanno voluto rientrare in Senegal per finire i loro giorni circondati dalla famiglia e dai nipoti. A loro Patricia Mirallès, ministro per i Veterani e alla Memoria, ha offerto un aiuto economico eccezionale per il reinsediamento nella terra d’origine, mantenendo la loro pensione anche fuori dal territorio francese. Un piccolo riconoscimento tardivo ma importante, che è un messaggio anche per le generazioni più giovani di figli di immigrati, in direzione dell’inclusione.