Oggi, 25 luglio, si tiene il referendum sulla nuova Carta, che accentrerebbe tutti i poteri nelle mani del presidente Saïed. L’islam non è definito religione nazionale, ma si dice che il Paese «appartiene alla nazione (Ummah) islamica». Opposizioni e società civile protestano
È stato proprio il capo dello Stato, che un anno fa aveva sospeso il parlamento e mandato a casa il primo ministro, a nominare il ristretto gruppo di esperti che nel giro di appena un mese ha preparato la bozza della nuova Carta, resa nota il 30 giugno. Sempre Saïed, non convinto del risultato del lavoro della “sua” squadra, lo ha poi rivisto personalmente modificandone alcuni punti sostanziali, tanto che lo stesso capo della commissione Sadok Belaïd in questi giorni ha preso le distanze dal testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, ritenendo che esso possa «aprire la strada a un regime dittatoriale».
La Tunisia si prepara al referendum costituzionale nel mezzo di una grave crisi non solo politica ma anche economica e sociale: la disoccupazione alle stelle, in particolare tra i giovani, e i pesanti contraccolpi della guerra in Ucraina che ha esacerbato i rincari delle materie prime e del cibo stanno portando all’esasperazione un popolo ormai completamente disilluso dopo le speranze di cambiamento seminate dalla rivoluzione dei Gelsomini. In questi anni la classe politica ha dimostrato la propria incapacità a realizzare le riforme necessarie al rilancio del Paese e si è rivelata ancora invischiata nelle vecchie dinamiche clientelari contro cui il popolo si era sollevato undici anni fa.
È proprio nel nome della lotta alla corruzione che Saïed ha portato avanti il suo colpo di mano contro i partiti, in particolare la formazione a matrice islamista Ennahdha. Ma se un anno fa – proprio il 25 luglio 2021 – i tunisini erano scesi in piazza a sostegno della mossa del presidente, ora parte della società civile teme che la nuova Costituzione metta a rischio i contrappesi democratici sanciti nella Carta del 2014, frutto di un difficile compromesso tra le parti politiche negli anni post rivoluzione e citata come modello perché garante di importanti diritti.
La nuova legge fondamentale, che lunedì sarà sottoposta a un referendum popolare senza quorum, se approvata trasformerà la Tunisia in una Repubblica presidenziale pura, con una forte riduzione del ruolo del Parlamento. Il testo prevede infatti che il capo dello Stato eserciti la funzione esecutiva, abbia il potere di nominare o rimuovere il primo ministro (senza la fiducia dei parlamentari), di respingere le leggi approvate dalle Camere (all’Assemblea dei rappresentanti del popolo si aggiungerà un Consiglio nazionale delle regioni) e assegnare alti incarichi civili e militari.
Contro l’eccesivo accentramento dei poteri nelle mani di Saïed si sono schierate nei giorni scorsi oltre trenta Ong e associazioni della società civile che in una nota congiunta hanno denunciato «l’approccio unilaterale del presidente della Repubblica che ha confiscato il diritto dei tunisini a discutere del loro destino, senza coinvolgere le componenti della società civile, la scena politica, gli accademici e gli specialisti”, e hanno criticato tra l’altro “l’abolizione degli organi costituzionali relativi a media, giustizia, diritti umani e lotta alla corruzione».
Non solo. I firmatari, tra cui la Lega tunisina per i diritti umani (già membro del Quartetto per il dialogo nazionale premiato nel 2015 con il premio Nobel per la pace), il sindacato dei giornalisti (Snjt), il Forum per i diritti economici e sociali (Ftdes) e la Coalizione per l’abolizione della pena di morte, sostengono che il testo in questione «mina la nozione di cittadinanza che unisce i tunisini senza discriminazioni basate su credo, colore o genere».
Nell’articolo 1 della nuova Costituzione, infatti, è stato rimosso il riferimento alla natura civile dello Stato. E sebbene l’islam non sia definito religione nazionale, in realtà l’articolo 5 dichiara che il Paese “appartiene alla nazione (Ummah) islamica” e che lo Stato deve operare per raggiungere “le cinque finalità del puro islam: la conservazione della vita, dell’onore, della proprietà, della religione e della libertà”. Svaniscono così le speranze di chi si aspettava una svolta “laica”.
Le preoccupazioni di alcuni giuristi su questo punto sono condivise dagli esponenti delle minoranze, tra cui quella cristiana: d’altra parte il testo non solo mantiene il vincolo che il presidente della Repubblica debba essere un musulmano, ma esige che i candidati alla presidenza, così come i membri del parlamento, abbiano sia i genitori sia i nonni di nazionalità tunisina. Invece, scompare il riferimento all’universalità dei diritti umani.
Ma se è vero che parte della società civile sta esprimendo il suo dissenso e il leader di Ennahdha Rached Ghannouchi ha esortato i cittadini al boicottaggio del referendum (scelta peraltro autolesionista vista l’assenza di quorum), resta il fatto che il presidente continua a godere del sostegno silenzioso di buona parte della popolazione, che vede nel suo “strappo” democratico una mossa dolorosa ma necessaria per sradicare la corruzione. E, di fronte alle difficoltà quotidiane ad ottenere persino il pane, è disposta a rinunciare a un ampio margine di libertà nella speranza che un presidente “forte” possa rimettere in sesto un Paese allo sbando.