L’Africa che non ti aspetti

La rubrica di Eyoum Ngangué è diventata un libro. Che racconta “l’altra Africa”, quella che vive di creatività e ottimismo, del protagonismo delle donne e della salvaguardia dell’ambiente

 

In anteprima, la prefazione del direttore del “Corriere della Sera” al libro Capo di Buona Speranza (ed. Emi, Bologna) di Eyoum Ngangué.

Nel male c’è più romanzo che nel bene. È vero. Il cattivo esercita un fascino sinistro. Il buono spesso annoia. Il giornalismo è fatto perlopiù di storie negative. E non potrebbe essere altrimenti. Perché il suo compito è quello di fare le pulci al potere. Risvegliare le coscienze. Avvertire l’opinione pubblica di quello che non va affinché una classe dirigente responsabile sia costretta a intervenire. E a migliorare la vita di tutti.

Le buone notizie, i racconti del bene hanno uno spazio limitato, angusto. Sono i vasi di coccio del giornalismo. Quando al Corriere decidemmo di impegnarci ogni giorno nel dare più buone notizie possibile, molti storsero il naso. Scettici. Solo propositi, si diceva. Nulla di più. Sentimenti apprezzabili, ma destinati a essere travolti dalla forza dirompente della cronaca che è fatta più di sangue e malessere che di bontà e volontariato. Ma non accadde, perché il bene è contagioso. E nonostante tutto si diffonde. In silenzio. Una storia tira l’altra. Sollevando la superficie opaca del conformismo e dell’apatia, si scopre un dedalo di fatti e relazioni che ci colpiscono. E ci commuovono. Per la profondità dei gesti e la concretezza della solidarietà. La misericordia e la carità non sono frutti così rari persino nei troppi deserti dell’egoismo contemporaneo. Persino laddove la fame si impasta con la guerra; le lotte religiose si sommano ai conflitti tribali.

Come nei Paesi descritti in questo libro che ha il significativo titolo di “Capo di Buona Speranza”. Il nostro sguardo sull’Africa è condizionato dalle immagini di morte dei tanti barconi che si rovesciano davanti alle nostre coste. A volte abbiamo la sensazione che il futuro sarà scandito da immense correnti migratorie. Dal Sud del mondo, che fa più figli, invaderanno il Nord, che ne fa pochi, pochissimi. E reagiamo con un sentimento misto di paura e disinteresse. Conosciamo a malapena quell’Africa che cresce e produce, che annovera ormai alcune piccole potenze economiche, in grado di sfidare addirittura i Paesi che le avevano colonizzate. Confondiamo la Somalia con l’Angola. Viviamo di pregiudizi e disinformazioni. Ignoriamo l’esistenza di una classe media ormai diffusa. Crediamo che l’intero continente sia solo oggetto di due invasioni: quella religiosa dell’islam e quella economica della Cina. Pensiamo molto a Ebola, poco alle missioni e al volontariato internazionale. Ci rifugiamo nelle mete turistiche, bellissime, ma ci rifiutiamo di capire che cosa accada veramente intorno a noi. Troppo aspro, complicato, inestetico. Meglio lasciar perdere.

Nella mia vita professionale ho spesso avuto a che fare con straordinari sacerdoti del Pime, il Pontificio istituto delle missioni estere. Conservo ricordi belli. Indelebili. Come le parole e lo sguardo dolce di padre Giacomo Girardi. Sapeva trasmettere a tutti noi che cosa significasse fare il missionario, quale gioia intima scaturisse dalla consapevolezza di fare del bene agli altri. Anche nei luoghi più lontani dove guerra, fame e morte sembravano e sembrano invincibili. La volontà e la fede sono ingredienti essenziali della speranza. Il sentimento che lega i capitoli di questo volume. La speranza nasce dal dialogo, dallo studio, dalle buone pratiche. E viene trasmessa anche a noi. È racchiusa nei sacchetti di plastica, vero flagello del continente, che mani abili e pietose trasformano, nel Burkina Faso, in blocchi per fare i pavimenti. Accompagna il riscatto di Rachel, accusata di stregoneria e finita su una strada a Kinshasa che diventa attrice e interpreterà il ruolo appunto di una strega. È la speranza di un mondo migliore, libero da corruzione e miseria, che convince gli abitanti di una cittadina del Camerun ad aprire la loro piccola libreria. E spinge gli orgogliosi cittadini di una località marocchina di montagna a impegnarsi per essere primi al mondo fra le città più pulite, in un Paese che è solo al novantanovesimo posto. La speranza – seppur tenue e forse contraddittoria – si legge anche nel capitolo dedicato alla Mauritania dove si apre un centro per la formazione di donne “muftì”. Sono storie di successo, di modernità, specialmente nei protagonisti africani della Rete. Non di rado bravissimi.

I giovani africani non hanno nulla da invidiare ai loro coetanei occidentali nell’uso dei social network. Colpisce, per esempio, la diffusione straordinaria di Facebook in Somalia. Alcuni nuovi tablet sono africani. Mauritius non è solo un paradiso in terra ma anche una piccola Silicon Valley. Le energie rinnovabili possono essere prodotte in molti modi, persino con l’urina. L’originale brevetto è stato presentato da quattro ragazze alla fiera degli inventori di Lagos. E la voglia di riscatto degli eritrei viaggia veloce come i ciclisti che si stanno affermando in questo sport e sognano di essere i keniani delle due ruote.

Coraggio, inventiva, fatica, abnegazione, dolore. E un finale di speranza e orgoglio, di fiducia nel futuro. I Paesi più ricchi guardano al domani con occhi tristi e preoccupati. Così diversi da quelli dei ragazzi africani descritti da Eyoum Ngangué che sprizzano curiosità e meraviglia. E con l’ingenuità e la naturalezza dei sognatori non si lasciano sopraffare dal clima di morte e dolore che spesso li assedia e a volte ancora li condanna. Noi non possiamo che ringraziarli, al loro posto forse non ce l’avremmo fatta.