Secondo alcuni analisti i Paesi africani rischiano di cadere di nuovo nella spirale dell’indebitamento, questa volta nei confronti di creditori privati. È l’onda lunga della crisi economico finanziaria partita dagli Stati Uniti.
Nel 2000 i Paesi dell’Africa subsahariana dovevano in totale ai creditori istituzionali 130 miliardi di dollari, oggi questo debito ammonta a 150 miliardi. Un incremento tutto sommato sotto controllo. A colpire è la rapida crescita di un altro debito, quello nei confronti di creditori privati, passato da 30 miliardi nel 2010 a circa 160 miliardi del 2015. Numeri che disegnano un nuovo scenario: se prima i creditori dei Paesi africani erano i governi o istituzioni come il Fondo monetario internazionale, dal 2008 in poi sono diventati predominanti banche e fondi di investimento. I prestiti tradizionali sono stati soppiantati da obbligazioni emesse sia dai governi che dalle imprese africane, obbligazioni che poi sono state collocate da banche internazionali e americane e acquistate da privati.
Mondo e Missione ha intervistato Paolo Raimondi, economista ed esperto di finanza internazionale.
L’indebitamento nei confronti di privati da parte dei Paesi africano ha cominciato a crescere nel 2008, l’anno della crisi finanziaria globale. È una coincidenza o c’è una relazione?
La data del 2008 non è affatto casuale. Soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Europa, per salvare le banche sono state messe in atto da parte delle banche centrali come la Federal Reserve operazioni di quantitative easing (vale a dire “alleggerimento quantitativo”: la banca centrale acquista, per una predeterminata e annunciata quantità di denaro, attività finanziarie delle banche in crisi, tra cui azioni e titoli, anche tossici, per stabilizzarne il bilancio). Tutto questo denaro è stato immesso sul mercato.
Cosa c’entrano i Paesi africani?
C’era grande disponibilità di denaro a basso costo ed è stato usato per comprare titoli nei Paesi emergenti, soprattutto quelli africani. Questi Paesi in cerca di liquidità per finanziare la propria crescita economica sono andati a cercarla sul mercato aperto: imprese e governi africani hanno emesso titoli soprattutto sotto forma di obbligazioni, che poi sono state facilmente collocate da banche internazionali e americane. D’altra parte molte di queste aziende sono corporation partecipate da società occidentali, così il cerchio si è chiuso facilmente.
Ma il debito dei Paesi africani dopo il Duemila non era stato cancellato?
All’inizio degli anni Ottanta i Paesi in via di sviluppo furono vittime di una grande crisi del debito nei confronti di altri governi e istituzioni pubbliche occidentali, che si era moltiplicato in modo iniquo a causa di diversi fattori. Le campagne della società civile e delle chiese ne chiesero la cancellazione. A partire dal 2000 la moratoria si protratta per anni accompagnata però da restrizioni notevoli per i futuri debiti pubblici. In pratica governi e creditori istituzionali hanno cancellato il debito ai Paesi emergenti chiedendo però loro di non contrarne di nuovi. Così questi Paesi in cerca di liquidità sono andati sul mercato aperto privato, che però è molto più aggressivo.
Anche i Paesi occidentali però sono indebitati…
È vero. Il debito pubblico dell’Occidente è aumentato del 35 per cento dal 2009 a oggi. Il problema dei Paesi africani è però l’incremento del debito nei confronti di privati e soprattutto le condizioni, che ora sono cambiate: la speculazione sul petrolio e il crollo dei prezzi delle materie prime li sta mettendo in enorme difficoltà. La loro crescita economica è ancora fragile. In più i creditori privati hanno imposto il dollaro e quindi il debito è ostaggio delle fluttuazioni monetarie. La caduta dei prezzi delle materie prime, la svalutazione delle valute nazionali rispetto al dollaro e all’euro e l’inevitabile risalita dei tassi di interesse rischia di causare una nuova crisi del debito. Con una differenza fondamentale: il debito contratto con istituzioni pubbliche si è potuto riscadenzare e negoziare, anche su pressione delle campagne della società civile. Invece sul mercato libero chi ha comprato le obbligazioni, poniamo, delle aziende del Ghana, non vorrà sottomettersi a nessuna pressione.
Quali potrebbero essere le conseguenze?
C’è il rischio concreto che molte aziende africane falliscano. Ciò avrà impatto sulla spesa sociale dei governi africani: se l’azienda del Ghana non pagherà più le tasse il governo di quel Paese non potrà più contare su certe entrate e sarà costretto a tagliare i fondi per gli ospedali o le scuole.
Cosa è possibile fare?
È difficile dirlo. I governi africano dovrebbero in teoria salvare le proprie imprese, ma non sono in grado di farlo. I Paesi emergenti continueranno a subire le conseguenze delle contraddizioni dell’economia americana o europea finché non si arriverà a una nuova architettura più giusta. In questo scenario possono avere un ruolo i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica): dovrebbero stringere un’alleanza operativa con l’Europa per avere la forza di portare gli Stati Uniti a una nuova Bretton Woods ridefinire così le regole finanziarie internazionali.
Paolo Raimondi è editorialista di Italia Oggi e scrive su diverse testate italiane. Sulla rivista “Limes” di dicembre è uscito un suo approfondimento su questo argomento.