Già dal 2050, a causa del cambiamento climatico le temperature di Medio Oriente e Nord Africa toccheranno sempre più spesso picchi di 50 gradi; l’umidità aumenterà insieme a tempeste di polvere che renderanno praticamente impossibile qualsiasi attività umana all’aperto e costringeranno milioni di persone all’esodo verso nord.
Tempeste di sabbia, poca acqua e il termometro che segnerà temperature da record: è questo lo scenario apocalittico che potrebbe toccare le regioni del Medio Oriente e del Nord Africa già nei prossimi 30-80 anni.
A delineare il quadro a tinte fosche è il tedesco Max Planck Institute, uno dei centri d’eccellenza per lo studio dei cambiamenti climatici nel mondo, il quale – dopo mesi di ricerca – ha stilato un rapporto sulle conseguenze del surriscaldamento globale nell’area levantina.
Entro il 2050, il numero di giornate con massime di 50 gradi diventeranno circa 80 all’anno, più o meno il doppio di oggi. Dì di 40 gradi saranno la norma, mentre giorni intorno ai 46 gradi si verificheranno cinque volte più spesso rispetto a quanto accadeva fino alla fine del secolo; anche durante la notte, poi, il caldo non lascerà tregua e il termometro non scenderà sotto i 30 gradi.
Inoltre le emissioni di anidride carbonica non porteranno solo a un’impennata delle temperature estive, ma anche a una maggiore umidità e a lunghe tempeste di polvere che renderanno pericolosa per la salute e quasi impossibile – entro la metà del secolo – ogni attività all’aria aperta da parte dell’uomo.
L’impatto di un’umidità crescente sulle attività umane all’aperto si verificherà negli anni a venire soprattutto nelle pianure costiere lungo il Golfo, ad Abu Dhabi, Dubai, Doha e Bandar Abbas, oltre che sulla zona costiera dello Yemen.
Ma anche per chi abita altre parti della regione vengono tempi duri, in cui i giorni insolitamente caldi aumenteranno a circa 200 per anno.
Per tutte queste ragioni, il Medio Oriente rischia di trasformarsi in una terra non solo inospitale ma praticamente inabitabile dall’uomo.
A dirlo chiaro è anche il professor Jos Lelieveld, coautore della ricerca in questione: «In futuro, il clima in gran parte del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale potrebbe cambiare tanto che la stessa esistenza dei suoi abitanti è in pericolo».
Nonostante questa situazione, però, i Paesi del Golfo – capeggiati dall’Arabia Saudita – non sembrano essere troppo allarmati dalla questione del cambiamento climatico come dimostra il fatto che negli ultimi anni sono stati proprio gli Stati produttori di petrolio ad aver rallentato il raggiungimento di un accordo globale sulla limitazione delle emissioni di carbonio. Con la conferenza di Parigi del dicembre dell’anno scorso si è infine siglata un’intesa mondiale per il contenimento – entro il 2050 – dell’aumento delle temperature entro i 2 gradi rispetto ai valori dell’era preindustriale.
Ma anche questo accordo rischia di arrivare troppo tardi e di rivelarsi insufficiente per una situazione climatica già gravemente compromessa. Un altro studio sempre condotto dall’istituto tedesco ha constatato infatti che in questo secolo, a causa di siccità prolungate e prosciugamento dei suoli, le emissioni di polveri sono aumentate del 70 per cento in Arabia Saudita, Iraq e Siria.
La soluzione sembra, almeno per i ricchi che possono permetterselo, un aumento degli investimenti in impianti di climatizzazione e di desalinizzazione dell’acqua ma a lungo termine la decisione si rivelerebbe controproducente in quanto i sistemi funzionano ad alta intensità energetica e a loro volta aumentano le emissioni nell’atmosfera, compromettendo ulteriormente il problema che si promettevano di risolvere.
Dunque, per la stragrande maggioranza delle 500 milioni di persone che vivono nella regione, l’unica opzione per far fronte al cambiamento climatico rimarrà migrare verso nord e aggiungersi all’esodo epocale che coinvolge già milioni di persone in fuga da guerre e oppressioni.
Nell’immagine sono descritte le possibili situazioni future nei mesi invernali (DJF) e in quelli estivi (JJA), secondo due diversi modelli. Il primo (RCP8.5) ipotizza le conseguenze che ci sarebbero nella regione se l’aumento della temperatura globale seguisse il trend degli ultimi anni, mentre il secondo modello (RCP4.5) dà per buono il rispetto dell’accordo sulle limitazioni di emissioni siglato nella conferenza di Parigi.