Ne sa qualcosa mons. Christian Carlassare, vittima di un attentato, che per la sua diocesi ha due priorità: creare unità e guarire i traumi
«Ho sempre pensato che la Chiesa debba lavorare per la promozione della giustizia e della pace soprattutto in Sud Sudan, creando agenti pastorali che siano capaci di incontrare le comunità, dialogare, discutere le problematiche che vive la gente e trovare soluzioni diverse, evangeliche. Adesso, con il trauma che ho vissuto io stesso, mi sono quasi stupito nel rendermi conto di quanto le persone del Sud Sudan subiscano le ferite del conflitto e di come questo faccia loro vivere una sorta di schizofrenia tra quello che sono nei momenti di pace e quello che possono diventare quando li assalgono la rabbia, lo sconforto o la paura».
Dal letto del Nairobi Hospital, dove è stato ricoverato per diverse settimane dopo l’attentato subito nella notte tra il 25 e il 26 aprile, monsignor Christian Carlassare, neo vescovo di Rumbek che avrebbe dovuto insediarsi il 23 maggio, riflette su una delle grandi sfide che la sua Chiesa e tutta quella del Sud Sudan si trovano ad affrontare: quella appunto della pace, della riconciliazione e della guarigione dei traumi e della memoria. Un impegno non facile in tutto il Paese e in particolare in un contesto come quello dello Stato dei Lakes, di cui Rumbek è capitale, dove si ripetono quasi giornalmente scontri, attacchi, violenze, vendette, razzie di bestiame e pericolosi giochi di potere a tutti i livelli. Anche dentro la Chiesa.
Tra i dodici arrestati per il suo attentato, infatti, ci sono anche tre preti locali. Il che aggiunge interrogativi, inquietudini e tristezza a una vicenda terribilmente penosa. Ma che in qualche modo è specchio di un Paese sempre più frammentato e conflittuale. «Dentro la Chiesa ci sono divisioni perché non si è ancora Chiesa – analizza con lucidità monsignor Carlassare -; perché ancora non si è fatto quel cammino di comprensione di cosa significhi essere cristiani, credere in Cristo ed essere uno in Lui. Allora si può facilmente cadere in una Chiesa-istituzione che manca dello spirito e del carisma, come abbiamo visto a Juba a ora anche a Rumbek, dove è ostaggio di clan, tribù, figure di potere che non permettono un vero percorso di vita cristiana, buona e convertita, e di unità. Per questo è importante la testimonianza: occorre tornare alla radice di quanto Gesù ci ha insegnato, creare comunità, lavorare con le famiglie ed essere autentici nel vivere la nostra fede».
Il lavoro che attende monsignor Carlassare non sarà facile, anche perché la diocesi è rimasta senza vescovo per dieci anni. Ovvero dalla morte di monsignor Cesare Mazzolari, deceduto nella cattedrale di Rumbek una settimana dopo la proclamazione dell’indipendenza, per cui aveva tanto lottato al fianco del popolo sud sudanese. Ci aveva davvero creduto in un nuovo Sud Sudan, padre Cesare, e per questo si era particolarmente speso nell’ambito dell’istruzione (in diocesi ci sono 112 scuole di tutti i livelli) e della sanità (con tre ospedali e numerosi dispensari), ma anche del counceling e del trauma healing. Una delle sue ultime iniziative è stata la creazione di una scuola per insegnanti, il Mazzolari Teachers’ College, che oggi viene gestito dai gesuiti e sostenuto dalla Fondazione Cesar, creata nella terra d’origine del vescovo bresciano e che prova a dare continuità ad alcune delle sue opere in Sud Sudan.
«Dopo le grandi aspettative create dell’indipendenza – analizza Mariangela Rossini, presidente di Cesar – non è stato facile continuare a operare in diocesi, soprattutto per la situazione di insicurezza che si è ulteriormente aggravata in questi ultimi anni e che colpisce in particolar modo l’area di Cueibet, dove si trova il College. Qui si scontrano ripetutamente clan rivali e nel novembre del 2018 è stato ucciso persino il direttore. La pandemia di Coronavirus ha reso tutto più difficile, anche le nostre missioni sul posto. Ciononostante, cerchiamo di portare avanti i nostri progetti, specialmente a favore di migliaia di bambini, donne, malati di lebbra e malnutriti a cui cerchiamo di garantire istruzione, cibo, salute. E anche dignità».
È quanto cercano di fare anche i medici e il personale logistico di Medici con l’Africa-Cuamm, l’ong padovana che è presente nel Paese dal 2006 e che opera attualmente in 5 ospedali e 165 strutture sanitarie periferiche. Tra queste, anche gli ospedali di Cueibet, Yrol e Rumbek. Ed è stato proprio grazie al loro intervento che padre Christian ha potuto ricevere le prime cure ed essere evacuato prima a Juba e poi a Nairobi.
«Purtroppo, continuiamo a curare moltissimi pazienti per ferite di arma da fuoco», interviene il dottor Enzo Pisani, che con la moglie Ottavia è impegnato da molti anni in Africa, passando da contesti di guerra come l’Angola a gravi epidemie come quella di Ebola in Sierra Leone sino, appunto, al Sud Sudan dilaniato dalle violenze. «La situazione sembrava un po’ migliorata lo scorso anno, in seguito al processo di disarmo che però è stato solo di facciata. Poi sono ripresi i conflitti che hanno reso difficile se non impossibile spostarsi via terra su strade che, già di loro, sono spesso impraticabili per il pessimo stato in cui si trovano». L’ospedale di Rumbek copre quattro contee con un enorme bacino d’utenza. Ogni anno, si calcolano circa 17 mila ricoveri. «Un carico molto difficile da gestire – dice il medico del Cuamm -. Solo per fare un esempio, in pediatria, durante il periodo della malaria, a volte siamo costretti a mettere cinque bambini per letto».
Ancora oggi, in Sud Sudan gli indicatori di salute materno-infantile sono tra i peggiori al mondo: la mortalità materna è di 789 donne su 100 mila nati vivi, quella neonatale di 60 su mille nati vivi, quella dei bambini sotto i 5 anni è di 93 su mille. «Un ambito in cui c’è ancora moltissimo da fare», conferma il medico. Lo stesso vale per l’istruzione in generale e per quella delle ragazze in particolare. Per questo, nel 2006, il vescovo Mazzolari aveva fortemente voluto la creazione della scuola superiore femminile, una delle prime in Sud Sudan. Attualmente la Secondary Girls’ Boarding School, gestita dalle religiose dell’Institute of the Blessed Virgin Mary, conosciute anche come Loreto Sisters, conta circa 600 studentesse, alcune delle quali hanno proseguito gli studi anche a livello universitario. Una piccolissima avanguardia che rappresenta anche una piccola ma significativa speranza per un Paese dove il 7% delle ragazze si sposa prima dei 15 anni e il 42% tra i 15 e i 18. «Le ragazze del Sud Sudan affrontano avversità estreme nell’accesso all’istruzione e hanno molte più probabilità di abbandonarla. Persino l’educazione di base è un diritto negato a molte», dicono le religiose. La Loreto School, tuttavia, non mira solo a favorire l’istruzione femminile – fronteggiando molti pregiudizi e ostilità – ma cerca anche di «promuove l’unità tra gli studenti, nel rispetto delle differenze, per contribuire alla visione di un futuro pacifico del Sud Sudan».
Pace e unità sono due parole che ricorrono continuamente nella diocesi di Rumbek così come in tutto il Paese. «Con l’indipendenza i sud sudanesi sono diventati nazione, ma sapevano che sarebbero dovuti diventare popolo – dice il vescovo Carlassare -. Purtroppo, la politica del post indipendenza non ha aiutato a creare unità, ma ha contribuito a disintegrare anche le comunità locali, specialmente in questi ultimi anni di conflitto. Per questo, anche nel mio motto di vescovo della Chiesa di Rumbek, ho scelto il tema dell’unità, dell’essere uno in Cristo. È necessario riconoscersi come persone umane, portatrici di dignità e unità e di un percorso comune che vada oltre le distinzioni e le tensioni che purtroppo dividono ancora così tanto la gente del Sud Sudan».