In perfetto stile hollywoodiano, il film “The Woman King” esalta un capitolo poco noto della storia africana. Ma non mancano le polemiche, soprattutto sull’accuratezza della ricostruzione storica e sulla tratta degli schiavi
Siamo nel Golfo di Guinea, negli anni Venti dell’Ottocento, in un territorio che oggi fa parte del Benin. Il regno del Dahomey sta vivendo un periodo di prosperità economica. Dal 1818 al trono c’è il re Ghezo, diventato monarca grazie all’appoggio del commerciante brasiliano Francisco Félix de Sousa. Il sovrano vive ad Abomey in un bel palazzo, circondato dalle sue numerose mogli e difeso da un corpo militare speciale, le Agojie. Sono donne guerriere, le Amazzoni del Dahomey, nominate “spose del re” ma di fatto votate al celibato. All’epoca sono l’unico esercito femminile non solo in Africa, ma nel mondo. E in nome del re, attaccano i nemici dell’impero Oyo e liberano i prigionieri.
Queste vicende, raccontate senza fare sconti a nessuno anche nel libro di Bruce Chatwin Il vicerè di Ouidah, sono al centro del film The Woman King, al cinema dal 1° dicembre, una produzione hollywoodiana diretta da Gina Prince-Bythewood – di origini anche africane – che racconta in chiave epica l’onore e il coraggio delle Agojie. La protagonista è una magnifica Viola Davis, nei panni di Nanisca, la comandante delle guerriere. In parallelo, seguiamo le vicende di una ragazzina, Nawi, che respinge l’aspirante marito molto più vecchio che la famiglia le ha destinato e per punizione viene ceduta dal padre alle Agojie. Per diventare una soldatessa, Nawi dovrà seguire una preparazione durissima per rafforzare il corpo, imparare a usare le armi, accettare una disciplina ferrea e superare un esame finale. Tra combattimenti spettacolari e un clima di guerra in crescendo con gli oyo, la storia progressivamente si polarizza. Da una parte, i “cattivi” oyo catturano gli schiavi e li vendono ai bianchi; dall’altra, i “buoni” del Dahomey, con Nanisca in prima fila, lottano per metter fine alla tratta. «L’uomo bianco ha portato l’immoralità, vuole tutta l’Africa in catene – dice il personaggio di Nanisca -. Noi non saremo un impero che vende il suo popolo».
In questo confronto, si innesta la storia personale della comandante, che da giovane subì violenza dagli oyo, e di Nawi, che è attratta da un giovane brasiliano figlio di una nera del Dahomey. I sentimenti trovano spazio anche in un altro colpo di scena finale, in un film che vuole coniugare storia e avventura con l’emozione.
A Cotonou, la capitale del Benin, le prime reazioni del pubblico al film sono state positive, come racconta The Africa Report. Benché consapevoli che Nanisca e Nawi siano personaggi di finzione, le persone hanno apprezzato il tuffo nel passato e la possibilità di immaginare il loro Paese ai tempi delle Agojie. Il film porta avanti il tema dell’empowerment femminile in Africa. Avere delle icone storiche di riferimento è importante e per quanto le guerriere del film siano violente – come qualsiasi esercito – sono figure di donne alternative alla tradizione patriarcale. Per una volta, essere donna e nera veicola un’immagine di forza e autorevolezza. «Ho trovato di grande ispirazione un esercito di donne guidato da una donna – ha commentato Oyeronke Oyebangi, nigeriana e femminista, su Npr –. Ma sono costernata per le disuguaglianze da loro sofferte. A differenza dei soldati maschi, ad esempio, non potevano sposarsi e diventare madri».
Anche a noi europei, tuttavia, non fa comunque male scoprire, grazie a questo film, che è esistita un’Africa diversa dagli stereotipi cui siamo abituati. È soprattutto in America, tuttavia, che The Woman King è diventato bersaglio di violente critiche. Su Twitter è stato creato l’hashtag #BoycottTheWomanKing, alimentato in particolare dai neri che discendono dagli schiavi africani e che ritengono che il film falsifichi la storia. Uno di loro arriva a paragonare The Woman King a un ipotetico film su un’ufficiale nazista che salva gli ebrei.
Lo spettatore non può che identificarsi in Nanisca quando denuncia la tratta degli schiavi e incita il suo re a trovare nuove forme di ricchezza, per esempio coltivando la palma da olio. Peccato, però, che qualsiasi libro di storia dell’Africa racconti una versione diversa. Il Dahomey e gli oyo erano rivali nel traffico degli schiavi. In ogni conflitto locale c’erano vincitori e perdenti: gli sconfitti venivano catturati e venduti come schiavi agli europei, in cambio di armi, polvere da sparo, tessuti e alcolici. Le stesse Agojie del Dahomey, che nel loro momento di massima espansione includevano 6.000 reclute, erano coinvolte come tutti gli altri. D’altronde Ouidah, che nel film vediamo in mano agli oyo, fu il secondo porto più attivo nel commercio degli schiavi tra il 1500 e il 1866, dopo Luanda. Da Ouidah nel 1860 partì la nave Clotilda, con l’ultimo carico di schiavi destinato agli Stati Uniti (come racconta il libro “Barracoon. L’ultimo schiavo” di Zora Neale Hurston). Il coinvolgimento degli africani nella tratta, tuttavia, non libera certo gli occidentali dalle loro gravissime responsabilità.
Per chi volesse approfondire, un gruppo di docenti universitari americani ha creato, proprio per far chiarezza sulle vicende raccontate in questo film, il sito The Woman King Syllabus, che include informazioni storiche e una ricca bibliografia sulla storia del Dahomey, sull’identità delle Agojie e sul loro ruolo effettivo nella tratta atlantica.