Le rivolte per il cibo in Venezuela mettono in luce quanto sia grave non avere non avere niente da mangiare. Ma, sul lungo periodo, c’è una soluzione semplice per risolvere il problema della fame nel mondo. È il classico uovo di colombo: l’atomo. È più o meno questo l’incipit di un articolo pubblicato questo settimana su Eniday, la testata di informazione online di Eni, dedicato alla lotta alla fame.
Si intitola Fighting for food e parte dalla crisi economica in corso in Venezuela per introdurre il tema della tecnologia nucleare applicata all’agricoltura. Un articolo comparso questa settimana sul sito dell’Eni parla di una soluzione che potrebbe, sul lungo termine, dare un forte contributo alla sconfitta della fame. Il progetto – che esiste per la verità già da diversi anni – è dell’International Atomic Energy Agency (IAEA). La tecnica consiste nell’irraggiare le piante con raggi gamma in modo da indurre veloci modifiche genetiche finalizzate ad aumentare la produttività. Con questa tecnologia sono già stati mutati semi di riso che producono ora piante in grado di crescere in acque più salate o orzo modificato che cresce a 4000 mt di altezza. Ma il lavoro procede su centinaia di semi. Esiste un sito-database di FAO e IAEA in cui di volta in volta vengono rese note le colture modificate con i raggi gamma e poi commercializzate. Di recente, per esempio, l’Iaea sta lavorando sulla produzione di una super-quinoa, una varietà geneticamente modificata che permetterebbe di incrementare in modo drastico la produzione di questo alimento dalle importanti capacità nutritive che di solito cresce solo in determinate situazioni climatiche.
Ma quindi a cosa serve dannarsi l’anima sul problema della fame, sulla lotta allo spreco, sull’equa distribuzione delle risorse, quando basterebbe la tecnologia nucleare ad aumentare la produttività e – quindi – a risolvere il problema?
Siccome non siamo degli esperti abbiamo chiesto un parere a chi, per lavoro, si occupa di nutrizione e lotta alla fame. «L’articolo è pieno di errori e di semplificazioni» afferma Pasquale De Muro, professore di Economia dello sviluppo umano all’Università degli Studi Roma Tre. «Questo dimostra anche che un certo approccio al tema non è cambiato nel corso degli ultimi decenni. Ogni volta c’è una tecnica che rappresenta la “soluzione” al problema della fame: negli anni Novanta era la green revolution, poi sono arrivati gli OGM (organismi geneticamente modificati), oggi la tecnologia nucleare. La verità è che il problema della fame è molto più complesso e che i presupposti sui quali si basano queste presunte “soluzioni” sono in gran parte errati».
«Il presupposto che per sconfiggere la fame basti produrre di più è clamorosamente falso» afferma De muro. «In realtà le statistiche della FAO dimostrano che nel mondo c’è il 25% in più del cibo che serve. È vero che ci sono Paesi che producono di più e Paesi che producono meno, in ogni caso sono davvero un manciata i Paesi che hanno una netto di calorie (considerando sia quello che producono che quello che importano) sotto il livello necessario a sfamare la propria popolazione. Succede in verità il contrario: ci sono Paesi che producono ed esportano molti prodotti alimentari, come l’Etiopia, dove la popolazione muore comunque di fame. Le disparità di accesso al cibo si riscontrano non solo tra nazioni ma all’interno di uno stesso Paese».
Aumentare la produzione in alcuni casi potrebbe essere addirittura controproducente: «Non farebbe altro che far crollare ulteriormente i prezzi dei prodotti alimentari, che in questi ultimi anni sono già andati ai minimi storici, impoverendo ulteriormente i contadini» afferma De Muro. «Il problema non è tanto la disponibilità di cibo quanto la capacità di acquisto e l’accesso al cibo».
Il caso del Venezuela, da cui parte l’articolo, è emblematico: «Il problema non è la produzione, ma il fatto che il default economico impedisca al Paese di importare cibo. Nessun Paese è autosufficiente, tanti prodotti sono comunque importati. Il problema non è la bassa produzione di cibo, ma che mancano i soldi per acquistarlo».
L’errore, secondo lo studioso, è pensare che ci sia sempre una “soluzione magica” in grado di risolvere il problema della fame. Ma è un errore “voluto”: «Tutte le grandi imprese periodicamente dicono che una determinata soluzione tecnologica salverà il mondo». I problemi però restano aperti: queste piante modificate saranno poi brevettate, e vendute da poche aziende. «Non è affatto chiaro se queste sementi modificate con la tecnologia nucleare saranno date gratuitamente ai contadini dalla Fao». È stato clamoroso, per esempio, il recente fallimento della Monsanto in Burkina Faso riguardo al cotone geneticamente modificato: i contadini erano sempre più indebitati per l’acquisto di semi ogm e il governo ha deciso di fare marcia indietro, mettendo al bando le nuove sementi e tornando al cotone tradizionale.
Viene il dubbio quindi che certe “soluzioni” al problema della fame rispondano più alle esigenze delle imprese che ai bisogni reali di chi la fame la vive sulla propria pelle. Viene in mente la “tecnocrazia” di cui parla Papa Francesco nella Laudato Si’. Non che la tecnologia non sia utile, tutt’altro. Il problema è quando la tecnologia «pretende di essere l’unica soluzione dei problemi» e «di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri».
Nella foto: le rivolte per il cibo in Venezuela