Il Burkina Faso è il terzo produttore di oro in Africa, ma le condizioni di chi lavora nelle miniere sono spesso disumane. Viaggio nel lato oscuro del metallo più prezioso
Il villaggio di Gosei, al confine con Mali e Niger, è una frontiera della corsa all’oro del Burkina Faso: paesaggio lunare di buchi, cunicoli e tunnel, l’eco degli zoccoli dei somari, il tintinnio di un metal detector artigianale che fruga tra la sabbia alla ricerca di tracce d’oro, bambini che spuntano dal nulla e donne che si spingono con ceste enormi sulla testa verso chissà dove.
Per arrivare quassù dalla capitale Ouagadougou bisogna sottoporsi a innumerevoli controlli della polizia. Per due ragioni: innanzitutto per il timore di infiltrazioni jihadiste, ma anche perché gli agenti devono sia proteggere gli affari delle grandi compagnie minerarie sia contenere il mercato clandestino dell’oro. L’ultimo avamposto è quello più severo: c’è una cella sul retro e dinanzi una branda per il poliziotto che soffoca dal caldo. Bisogna raggiungere il centro cittadino Dorì per poi avventurarsi lungo diversi chilometri di nulla per arrivare a Gosei. Poco prima si passa di fianco all’enorme sito della Iam Golden, società canadese, ben protetto dal filo spinato. A nessuno è permesso avvicinarsi.
Per il Burkina Faso quello dell’oro è un affare importante, in cui sono implicati sia compagnie straniere, che operano a livello industriale con grandi macchinari, sia minatori artigianali. Mentre le prime s’impossessano di vaste estensioni di terreno, spremendo tutto il possibile per poi spostarsi altrove senza bonificare – ma in qualche modo pianificando il lavoro secondo parametri precostituiti – quella artigianale, invece, è una realtà completamente senza regole, né per i lavoratori, né per l’ambiente. Per legge anche il prodotto delle estrazioni fai-da-te dovrebbe finire nel circuito legale, ovvero venduto a società dello Stato, ma nella realtà non è così. La maggior parte di quest’oro sfugge completamente al controllo delle autorità e soprattutto alle casse statali e di conseguenza al regime di tassazione. Questo perché molto spesso il lavoro artigianale è direttamente commissionato da imprenditori, quasi sempre stranieri, che pagano i lavoratori per farsi lasciare le pietre lavorate e portarle fuori dal Paese illegalmente. Può capitare anche che i minatori lavorino in maniera indipendente, senza una provvigione pattuita e poi rivendano il tutto al mercato clandestino.
Quanto alle miniere industriali – in tutto sette -, il Burkina Faso ne ha ricavato, nel 2014, 35 tonnellate di oro, divenendo il terzo produttore africano. Attualmente, l’oro rappresenta la principale materia prima esportata dal Paese, addirittura più del cotone. I governi di Blaise Compaoré – deposto il 31 ottobre 2014, dopo 27 anni al potere – non hanno fatto altro che elargire innumerevoli concessioni di terreni e agevolazioni fiscali a compagnie per lo più estere. Secondo il ministero delle Miniere e dell’energia, solo nel 2012 sono stati concessi 650 permessi di ricerca a imprese canadesi, australiane, statunitensi, britanniche e sudafricane. In questo modo, gli investimenti in tecnologie sono rimasti di privati stranieri e di conseguenza anche i guadagni. Lo Stato, da un lato, incassa solo il 10%, dall’altro, “paga” in ingenti danni ambientali, dalla deforestazione a “incidenti” vari, che hanno provocato un grave inquinamento delle falde acquifere (un esempio è quello della società Belhaura SA che ha perso 40 tonnellate di cianuro nelle acque di Djibrai). Per quanto riguarda invece le miniere artigianali, circa un milione di burkinabé sarebbero coinvolti in questo settore, che, nel 2014, ha prodotto circa due tonnellate di oro, senza contare quello che non è stato pesato, perché venduto clandestinamente.
La miniera di Gosei è proprio come la s’immagina: un inferno battuto dal sole martellante e, più si penetra nei cunicoli della terra, più il caldo diventa insopportabile. Un ragazzino che, con una torcia piazzata sulla fronte e un piccone più pesante di lui, s’infila in un tunnel, senza luce né aria. Le pareti sono sempre più roventi e strette. Bisogna essere minuti proprio come un bambino per riuscire a infilarsi. Gli occhi del ragazzino scrutano le pareti, per individuare le vene d’oro e scegliere le pietre da mettere nel sacco e far risalire verso l’uscita.
I minatori raccontano che in miniera si può scendere anche a gruppi di trenta. Normalmente i turni sono di circa dodici ore, ma c’è anche chi passa due giorni consecutivi nei tunnel. Da fuori, riescono a far passare cibo e sigarette. «Tutte le pietre vengono poi triturate – raccontano -. La purificazione avviene in un secondo momento e se ne incarica chi ha appaltato i lavori o, nel caso non ci sia nessun investitore, si porta tutto al mercato di Dorì».
Nessuno vuole sbilanciarsi sugli intermediari di questa operazione. A Dorì, ci spacciamo per acquirenti. Veniamo accolti in un laboratorio, dove avviene la purificazione, ma il “boss” si fa attendere e vuole che i suoi collaboratori ci scattino prima delle foto. Passano le ore e rinunciamo all’incontro. Ci dirigiamo verso un altro sito, Bogoya, un villaggio poco distante dalla città di Ouhigouyaa. Questo posto non esisterebbe se non fosse per la corsa all’oro. Gente che arriva anche da Togo e Niger con il mito di far fortuna grazie al prezioso metallo. Tutto è fermo, però. Non si lavora per lutto. In nottata, un ragazzo di vent’anni è morto per una pioggia improvvisa, intrappolato in uno dei buchi.
Poco distante, a Yabonsgo, stanno sbriciolando le pietre tra il frastuono generale dei macchinari. Poi a mano, col mercurio o il cianuro, fanno sì che l’oro si separi dalla roccia. Il processo è molto nocivo sia per l’apparato respiratorio che per quello neurologico. Finalmente, un venditore accetta di incontrarci. Estrae un minuscolo bilancino e per fare da contrappeso utilizza un fiammifero, l’equivalente di un grammo. Il prezzo è all’incirca di trenta euro a grammo; naturalmente ci fa capire che gli stranieri che arrivano sin lì acquistano quantità ben maggiori, con prezzi ritoccati al ribasso. Tutto avviene nella più totale illegalità. E se proprio non c’è nessuno disponibile a fare affari illeciti, allora contratta con la società burkinabé “Somika”.
«Se si acquista su quel mercato – spiega l’economista Abdou-laye Siry dell’Università Lape – si alimenta un’economia drogata e un sistema che sfrutta i lavoratori». «Non è solo una questione di inquinamento, ma anche di degrado sociale – sostiene Jonas Hien, direttore dell’ong Orcade, impegnata in una campagna sui rischi dello sfruttamento minierario -. Nel Nord, sono molto diffusi prostituzione e spaccio di droga, per lo stato di abbandono in cui versano queste terre e chi ci vive». Insomma, il più brillante dei metalli nasconde molti lati oscuri. MM