Nelle discussioni sul tragico caso di Trento manca – al solito – lo sguardo vero sul mondo. Che ci rivelerebbe come questo in realtà sia concretamente uno dei campi in cui si potrebbe fare molto di più rispetto al famoso «aiutiamoli a casa loro»
L’Italia riscopre tragicamente in queste ore l’esistenza della malaria, attraverso il tragico caso di Sofia, la piccola di Trento morta in circostanze ancora da chiarire fino in fondo. E giustamente stanno suscitando sdegno i soliti sciacalli, che non hanno perso l’occasione per farne una nuova freccia da scagliare sul delicato tema dell’immigrazione.
È interessante – però – osservare come tutta la riflessione si stia concentrando su come questo contagio di malaria sia arrivato in Italia. Problema certamente fondamentale da chiarire. Ma ci sarebbe anche un’altra domanda: è davvero un fatto inevitabile che nel mondo oggi questa malattia resti ancora così diffusa da non rendere impossibile che – in qualche caso – torni anche là dove sarebbe stata debellata?
Leggiamo il dato secondo cui ogni anno vi sono ancora 212 milioni di casi registrati e 429 mila morti di malaria. Ma ci scorre via come se niente fosse, come se la malaria fosse una compagnia inevitabile per chi vive in un Paese tropicale. Invece le cose non stanno affatto così: la storia di tanti Paesi (compreso il nostro) dimostra che la malaria si può combattere e debellare. E farlo è proprio uno degli impegni che il mondo si è assunto con l’istituzione nel 2002 del Fondo Globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria, realtà che vede insieme società civile, governi e imprese private con l’intenzione di accelerare la battaglia contro queste tre malattie. Un impegno poi confermato anche in sede Onu negli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile che a loro volta indicano l’abbattimento del 90% dei casi di malaria come uno dei traguardi globali da raggiungere entro il 2030.
Va detto che passi avanti importanti negli ultimi anni sono stati compiuti in questo senso: tra il 2010 e il 2015 i casi di malaria sono stati ridotti del 21% e le morti a causa della malattia del 29%. E in alcuni Paesi le attività di prevenzione sono state talmente efficaci da ridurre a zero i nuovi casi. Ma l’incidenza della malaria resta ancora molto grave in un’area ben precisa, l’Africa sub-sahariana. Le statistiche dell’Organizzazione mondiale della sanità dicono che lì si concentrano il 90% dei casi e il 92% delle morti. E per essere ancora più precisi sono in tutto tredici i Paesi che fanno registrare i tre quarti dei casi. Le statistiche dicono, però, anche un’altra cosa: che il 70% delle vittime sono bambini sotto i cinque anni, proprio come la piccola Sofia. Sì, nel mondo ogni due minuti c’è un bambino di quell’età che muore a causa della malaria, senza suscitare sdegno o domande sulle ragioni dell’infezione.
Lo scorso 25 aprile – in occasione della Giornata mondiale contro la malaria, istituita dall’Onu nel 2007 – l’Organizzazione mondiale della sanità proponeva lo slogan efficace Let’s close the gap, «chiudiamo il divario». Perché il problema fondamentale della malaria non è il clima tropicale, ma la mancanza in alcuni Paesi degli strumenti adeguati a prevenire e curare la malattia. Per esempio: il 43% delle persone a rischio malaria nell’Africa sub-sahariana tuttora non sono protette di notte né da una zanzariera né da un insetticida. Poi, certo, ci sono anche le ricerche all’avanguardia: adesso si sta anche sperimentando un vaccino contro la malaria. Ma il problema fondamentale resta il «divario», senza colmare il quale ogni tipo di soluzione rischia di rimanere inefficace.
Accertiamo dunque tutte le responsabilità sul caso di Trento. Ma senza dimenticare il problema di una malattia che avremmo tutte le conoscenze per abbattere e invece continua a uccidere tra chi è meno fortunato di noi.