Scontri armati e la scelta dell’opposizione di abbandonare i colloqui col governo fanno risalire la tensione nel Paese. E la Chiesa torna a chiedere impegni concreti
La guerra civile in Mozambico è finita 22 anni fa, ma la pace è più difficile da raggiungere. A segnali positivi come l’annuncio – arrivato la scorsa settimana – che il Paese è ormai libero dalle mine antiuomo piazzate durante un quindicennio di guerra civile si affiancano infatti episodi che riportano le tensioni ben oltre il livello di guardia.
L’ultimo è avvenuto sabato 12 settembre e ha coinvolto proprio il leader degli ex ribelli della Resistenza nazionale mozambicana (Renamo), Afonso Dhlakama, oggi capo dell’opposizione: il convoglio di auto sul quale viaggiava, nella provincia centrale di Manica, è stato colpito da raffiche di mitra: quattro i feriti tra gli uomini della scorta. L’attacco – che Dhlakama attribuisce all’esercito, ma che il partito di governo, il Fronte di liberazione del Mozambico (Frelimo), considera una messinscena – è una delle ragioni per cui la Renamo ha deciso di ritirarsi dai colloqui che ancora oggi si svolgono ogni settimana tra le due parti.
Il nodo, vent’anni dopo, è sempre lo stesso: la partecipazione degli ex ribelli alla vita dello stato (e in particolare la loro inclusione nell’esercito e nella polizia) ma soprattutto una ripartizione equa delle risorse del paese (carbone, gas naturale, pietre preziose e minerali vari). Concentrate nel nord, dove la Renamo è più forte, sono finora andate a beneficio prevalentemente dell’élite del sud del paese, bastione del Frelimo. Un ostacolo pesante per una democrazia giovane come quella mozambicana, di cui le continue tensioni, anche militari (riprese di recente nella provincia nordoccidentale di Tete) impediscono un vero consolidamento. E di una “democrazia vissuta nell’odio” si è spinto a parlare anche mons. Jaime Gonçalves, l’arcivescovo cattolico emerito di Beira che fu – con la comunità di S. Egidio e il governo italiano – tra i mediatori dell’accordo che sancì la fine delle ostilità nel 1992.
“Tutti in questi giorni si riempiono la bocca dicendo pace, pace, pace! – ha dichiarato il presule in una conferenza pubblica pochi giorni dopo l’attacco a Dhlakama – Ma dov’è la pace?”. Alla presenza del leader della Renamo e dell’ex presidente Joaquim Chissano – l’altro firmatario, a Roma, del trattato di pace – l’arcivescovo ha dato la sua indignata risposta: “Possiamo bussare a tutte le porte del Mozambico, ma nessuno ascolta”.
Già mesi fa, del resto, un altro vescovo cattolico, l’ausiliare di Maputo mons. Joao Carlos Nunes, aveva ricordato che “la creazione di una società democratica è un processo continuo e non può dirsi che sia concluso”. A parte le differenze tra nord e sud, infatti, il Mozambico vive il paradosso di una crescita economica elevata (+7,6% nel 2014) grazie alle risorse, ma che non raggiunge la maggioranza della popolazione (il paese è 178mo su 184 nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano dell’Onu). Un elemento che incide anche sulla difficoltà di raggiungere una pace che, come ha ricordato mons. Gonçalves “ha un’etica, una fraternità, una solidarietà”.
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