DIARIO DA ALGERI
Siamo appena tornati da uno spettacolo speciale. Speciale perché a organizzarlo, insieme a una realtà locale, sono stati Chiara e Salvatore, i missionari dell’Associazione Laici Pime (Alp) che lavorano con tanti giovani algerini, proponendo atelier di musica e teatro. Speciale perché si è svolto al Théâtre National d’Algérie, nel pieno centro di Algeri, dove di solito si esibiscono artisti esperti e non giovani alle prime armi. E, infine, speciale per la storia che racconta, una storia di “Bellezza” – da cui il titolo della pièce scritta dai giovani stessi insieme a Chiara -, speranza, passione e impegno per una società più giusta.
L’esperienza inizia due anni fa circa, quando Mohamed ci racconta la sua vita e il suo passato di artista, fino agli anni Novanta quando, a causa del terrorismo, dovette abbandonare la sua passione per la pittura, ritenuta haram (impura) e condannata come una stortura occidentale dagli estremisti islamici. In quell’occasione dovette addirittura bruciare pubblicamente il cavalletto e alcune sue opere! Ci racconta di un’avventura artistica e sociale realizzata nel 1973 in un villaggio degli altopiani, Maamoura, vicino a Saida (nell’Ovest del Paese), dove insieme ad altri tre artisti, e su richiesta degli abitanti, dipinse un grande affresco astratto che rappresentava la vita in tutte le sue sfumature: dagli orrori del conflitto (la terribile Guerra d’indipendenza terminata nel 1962), alle miserie dell’uomo, ma anche la sacralità della vita e la speranza di continuare a credere nell’umanità. Un capolavoro considerato dagli abitanti del villaggio come qualcosa che li rappresentava, come la cosa più bella di Maamoura.
Arrivano gli anni neri del terrorismo e l’affresco è in pericolo: gli islamisti armati vogliono distruggerlo. Gli abitanti del villaggio decidono allora di dividerlo in pezzi e di nasconderlo, sapendo che così facendo rischiano la vita. L’affresco sarà ricomposto molti anni dopo e oggi è ancora là a testimoniare che «la bellezza salverà il mondo», come scriveva Dostoevskij.
Nello spettacolo la licenza poetica trasforma un po’ la storia: gli abitanti del villaggio decidono di dividere l’affresco in tantissimi piccoli pezzi e di… mangiarli! Mangiando l’opera d’arte diventeranno loro stessi bellezza, se ne approprieranno e così non potrà mai più andare distrutta. La cosa più stupefacente è che questa simbologia eucaristica (il pane, corpo di Cristo, di cui ci nutriamo, per entrare in comunione con Lui e tra noi, e diventare alter Christus) è stata proposta da un giovane musulmano.
«La bellezza è un’arma contro la paura, la rassegnazione e l’omertà», diceva Peppino Impastato: questo spettacolo ha aiutato i giovani, ma anche il pubblico che affollava il teatro, a credere che sta a ciascuno di noi, qui e oggi, impegnarsi per costruire bellezza.