Un recente rapporto di Open Doors denuncia la grave situazione dei cristiani in Nigeria. Ma il vescovo Kukah di Sokoto mette in evidenza anche le grandi potenzialità di una società plurale
Boko Haram, ma non solo. Il recente rapporto di Open Doors/Porte Aperte sulla situazione dei cristiani in Nigeria – Crushed but not Defeated, “Schiacciati ma non sconfitti” – ripropone in tutta la sua complessità il dramma di milioni di persone strette nella morsa del fondamentalismo islamista, ma anche di scontri etnico-tribali, giochi di potere, ingiustizie e violenze. Sarebbero quasi 12 mila i cristiani uccisi in poco più di quindici anni e 1,3 milioni quelli che hanno dovuto abbandonare le loro case (cfr. box).
l rapporto parla di «violenza organizzata», che si è tradotta non solo nell’«insurrezione di Boko Haram, ma anche negli attacchi di allevatori musulmani fulani contro le comunità cristiane nella Middle Belt, nei tumulti pubblici della città di Jos (Stato di Plateau) e nella crisi pre-elettorale del 2011».
A complicare le cose, si sono sovrapposti giochi di potere a tutti i livelli, dal governo federale a quello degli Stati sino alle autorità tradizionali. La ricerca mostra come «negli ultimi anni vi sia stata una crescita del controllo sociale da parte dei musulmani nel Nord della Nigeria», che si è concretizzata anche in una pericolosa alleanza fra potere religioso e potere civile con conseguente «protezione degli interessi dell’élite musulmana religiosa e politica del Nord e l’adozione della sharia (la legge coranica) in 12 Stati». Di conseguenza, secondo il rapporto, in alcune aree del Nord della Nigeria, «la presenza cristiana è stata virtualmente cancellata o consistentemente diminuita, mentre in altre aree il numero di fedeli nelle chiese è cresciuto a causa del flusso di cristiani in fuga dalle violenze e da un certo numero di musulmani convertitisi al cristianesimo».
«Di fondo, però – commenta mons. Matthew Hassan Kukah, vescovo di Sokoto e membro del National Peace Committee – ci sono la fragilità dello Stato e l’incapacità della leadership di gestire la politica e di distribuire le risorse con equità».
A prima vista, la sua è una posizione alquanto “scomoda”. Mons. Kukah, infatti, è responsabile di una diocesi nel Nord-ovest della Nigeria, che copre quattro Stati con una popolazione di 15 milioni di persone, dove i cattolici sono solo l’1% (e i cristiani il 3). Sokoto, inoltre, è sede di uno dei più antichi e potenti califfati musulmani. Qui i cristiani vengono discriminati in tutti gli aspetti della vita, dalla scuola ai commerci, dalla pratica religiosa ai matrimoni. «Sono trattati con molto sospetto, come se fossero degli stranieri – conferma il vescovo – e sono totalmente assenti dalle posizioni chiave dell’amministrazione, della burocrazia o degli incarichi pubblici, non perché non siano qualificati, al contrario, ma proprio perché cristiani».
Lui, però, non pare assolutamente intimidito dalla situazione. Quello che colpisce subito, anzi, è il suo parlar chiaro, senza peli sulla lingua: «È quello che ho detto anche al presidente Muhammadu Buhari. E che condivido pure con il sultano Sa’adu Abubakar, che è mio amico». Amirul Mumineen Sultan Muhammadu Abubakar IV – per essere precisi – è il ventesimo califfo di Sokoto ed è considerato il leader spirituale dei musulmani della Nigeria; è anche il presidente della Nigerian National Supreme Council for Islamic Affairs. Un vescovo e un califfo, dunque, alleati contro il male comune. Che non è solo Boko Haram, «che uccide indiscriminatamente sia cristiani che musulmani – precisa mons. Kukah – per creare un clima di terrore e instabilità nel Paese. La differenza religiosa in se stessa non è un problema. Il problema è l’estremismo islamico, anche per gli stessi musulmani. Boko Haram minaccia il futuro della nostra convivenza pacifica».
L’altra grave minaccia, però, è la corruzione, «un cancro che attacca tutti i settori dello Stato e della società e che va combattuto a ogni costo, trovando i valori comuni per cui lottare», sottolinea mons. Kukah. Che ricorda anche l’ennesima presa di posizione dei vescovi della Nigeria, lo scorso febbraio, al termine della prima Assemblea plenaria del 2016. In quell’occasione, la Conferenza episcopale ha ripreso le parole di Papa Francesco, nella Bolla d’Indizione del Giubileo straordinario della Misericordia, dove definisce la corruzione «un grave peccato che grida verso il cielo, perché mina fin dalle fondamenta la vita personale e sociale. La corruzione impedisce di guardare al futuro con speranza, perché con la sua prepotenza e avidità distrugge i progetti dei deboli e schiaccia i più poveri».
«Sembra paradossale per chi guarda dal di fuori la situazione dei cristiani della Nigeria – continua mons. Kukah -, ma l’elezione di un presidente musulmano come Buhari, sostenuto anche da molti cristiani, ci dà nuova speranza. Ha parlato esplicitamente contro la corruzione e a favore della libertà religiosa. E ha sostenuto con forza di voler punire tutti coloro che hanno commesso crimini in nome della religione. Nessun presidente si era mai espresso in questo modo. È ancora presto per giudicare il suo operato. Aspettiamo azioni concrete. Le parole non bastano più per ripristinare la fiducia della gente nel governo e nella politica».
La difficile situazione economica, dovuta alla caduta del prezzo del petrolio, non aiuta. La Nigeria, anzi, sta attraversando uno dei suoi periodi più difficili, essendo l’economia ben poco differenziata e il bilancio dello Stato legato a doppio filo alle esportazioni di greggio.
«La gente si sente frustrata e minacciata – conferma il vescovo -. Il ritorno a una vera democrazia è la migliore opportunità per lavorare insieme e costruire un contesto stabile e sicuro. Una cosa è smettere di sparare, una cosa è rimettere in piedi il Paese e riportare ordine, condizioni di vita dignitose per tutti e diritti umani garantiti. Dobbiamo lavorare insieme per lo sviluppo della Nigeria. Dove mancano acqua, scuole, strade, elettricità, mancano per tutti, sia per i cristiani che per i musulmani».
La Chiesa sta facendo la sua parte anche in una regione dove è estremamente minoritaria come il profondo Nord. «Quello che stiamo cercando di portare avanti come priorità – continua mons. Kukah – è investire soprattutto nelle scuole. Quelle pubbliche, qui al Nord, spesso non sono buone, i professori non qualificati, e a volte gli studenti cristiani sono obbligati a convertirsi all’islam o non hanno accesso alla formazione cristiana. In tutti e quattro gli Stati “coperti” dalla mia diocesi, abbiamo sia scuole primarie che secondarie. Anche se sono poche e con poche risorse, i nostri studenti ottengono sempre i migliori risultati. Oltre il 60% sono musulmani perché apprezzano la qualità dell’insegnamento. Così come è musulmano l’80% dei pazienti dei nostri centri sanitari. La maggior parte sono donne e bambine, perché riserviamo loro un’attenzione particolare. Spesso esprimono la loro gratitudine alle suore e al personale per i trattamenti che ricevono. Gestiamo anche una clinica per immigrati provenienti da Ciad e Niger, che non hanno accesso alle cure mediche e anche loro sono quasi tutti musulmani. Insomma, anche se siamo pochi e abbiamo scarsi mezzi i risultati sono sostanziali. E per tutti».
Ne è particolarmente orgoglioso il vescovo Kukah, che non ha assolutamente un atteggiamento remissivo o di inferiorità, ma insiste sulla necessità di lavorare insieme per costruire una grande nazione. «Sono convinto – ribadisce – che la scuola rappresenti una grande opportunità per costruire la cittadinanza e la convivenza pacifica in Nigeria. È una strada lunga, anche perché dove è in vigore la sharia si è creato un contesto difficile per le relazioni e di violazione della libertà religiosa, che invece è riconosciuta dalla Costituzione. Ecco, dunque, perché la scuola è una delle migliori opportunità che abbiamo per costruire il dialogo interreligioso. Bambini e bambine imparano a conoscersi come esseri umani e non dietro l’etichetta confessionale. Qui in Nigeria, viviamo già in una società plurale. La sfida è gestire questa pluralità perché si traduca in una risorsa e non in un’occasione di conflitto».