Giulia e Roberto hanno condiviso un’esperienza di volontariato in Guinea Bissau. Che li ha talmente conquistati da spingerli a tornare per celebrare il loro matrimonio. E ora hanno un nuovo progetto
«Non ti preoccupare, fidati di me. Sarà un’esperienza che ti cambierà la vita». Con queste parole Giulia ha convinto Roberto a partire insieme per un mese in missione in Guinea Bissau, nel dicembre del 2016. Esattamente un anno dopo la loro vita è cambiata davvero: hanno scelto di sposarsi. E l’esperienza in missione li ha talmente coinvolti da scegliere di celebrare il matrimonio nella piccola chiesa del Sacro Cuore di Gesù a Bigene, nel Nord della Guinea Bissau. Giulia Bellotti, 31 anni, è originaria di Isolaccia, capoluogo del comune di Valdidentro, in provincia di Sondrio, ed è infermiera strumentista al Policlinico di Milano. Roberto Imperato, 42 anni, è invece di Brugherio, in Brianza; di professione architetto, ha uno studio con un socio a Milano.
«È stata una spinta lavorativa a portarmi per la prima volta in Guinea Bissau – racconta Giulia -. Sono infermiera di camera operatoria: volevo fare qualcosa di concreto, e mettere a confronto le attività che avrei svolto in un ospedale di un Paese povero con il mio lavoro in Italia. Avevo già fatto un’esperienza in Messico l’anno prima, con il cammino di Giovani e Missione del Pime». Nel 2015 Giulia trascorre il suo mese di volontariato nella Clinica Bor, l’ospedale pediatrico di Bissau costruito da padre Ermanno Battisti del Pime. «In Guinea mi sono accorta che non mi mancava nessuno dall’Italia, tranne Roberto – continua Giulia -. Tenevo un diario per lui e ogni giorno gli mandavo foto e messaggi. Una volta tornata, ho cominciato a interrogarmi se fosse lui l’uomo della mia vita, ma nello stesso tempo, pensando al futuro, sentivo il desiderio di continuare a fare questo tipo di esperienze, anche una volta sposata. Quindi ho capito che dovevo portarlo in Africa, era la prova del nove».
Il progetto di Giulia però incontra le prime difficoltà: «Roberto era lontano da ciò che stavo vivendo – continua Giulia -. Io sono cresciuta in una parrocchia da cui sono passati diversi missionari del Pime, la missione l’ho respirata fin da piccola. Mentre lui veniva da un mondo un po’ diverso dal mio, fatto solo di lavoro. Io desideravo che toccasse con mano la povertà e nello stesso tempo la ricchezza delle persone che avevo incontrato in Guinea Bissau. Anche in Messico avevo sperimentato qualcosa di simile: le persone non hanno nulla, parli una lingua diversa, ma è così facile intendersi… perché ti accorgi che Dio è uno solo e ama ciascuno di noi, ti senti protetta e custodita in una terra che non è la tua, e non hai paura di nulla. Volevo che anche lui potesse sentire quello che avevo provato io. Così, tornata in Italia, gli ho proposto di partire insieme per un’esperienza missionaria».
«Quando ho conosciuto Giulia, venivo da un periodo pieno di domande – interviene Roberto -. Avevo tutto quello che una persona poteva desiderare: un lavoro stabile e ogni bisogno materiale soddisfatto. Ma il mio cuore non era felice. Avevo cominciato a chiedermi se la vita fosse fatta solo di lavoro: alzarsi il mattino e tornare a casa distrutti la sera per poi ricominciare il giorno dopo. O se ci fosse qualcosa di più. Mi ero già messo in un momento di ascolto, poi ho incontrato lei in una discoteca a Milano. Giulia, nei cinque anni di università, non c’era mai stata: studiava, lavorava e tornava in Valtellina nel fine settimana. È stato un incontro diverso dagli altri: ho visto nei suoi occhi quella lucentezza e quella gioia che quasi tutti hanno perso. Era appena tornata dal Messico e quello che mi ha colpito sono state la sua gioia e freschezza, la sua voglia di condividere qualcosa di più».
«Quando l’ho conosciuta meglio mi sono accorto che quella lucentezza gliela dava Dio e lei riusciva a farla passare – continua Roberto -. E quando è tornata dalla Guinea Bissau gliel’ho rivista negli occhi. Di fronte alla sua proposta di partire insieme per un’esperienza missionaria, sono scattate in me mille paure. Lei era infermiera, ma un architetto a cosa poteva servire? Alla fine mi sono fatto convincere più che dalle sue parole dal suo essere. E quindi, con mille timori, ho preso in mano la mia vita, la mia persona, e le ho detto: “Mi fido di te, ti seguo”». Roberto e Giulia volano in Guinea Bissau insieme, alla fine del 2016: restano dieci giorni nella clinica Bor e poi si spostano a Bigene, nel Nord del Paese al confine con il Senegal, dove opera don Marco Camilletti, missionario fidei donum della diocesi di Foggia.
«La missione di Bigene si trova a tre ore e mezzo dalla capitale, in un’area rurale molto povera dove non c’è la corrente, non esistono sistemi fognari e le case hanno tetti di paglia, o in lamiera per i più fortunati – racconta Roberto -. All’inizio mi sono detto: “Va bene andare in un Paese povero, ma nella parte più povera di un Paese povero… forse stiamo esagerando!”. In realtà poi abbiamo semplicemente condiviso la quotidianità della missione e della comunità. Ci svegliavamo alle sei del mattino e iniziavamo con la Messa celebrata da don Marco, alla quale spesso eravamo presenti solo io, Giulia e le suore. Dopo la colazione, don Marco partiva ogni giorno per un villaggio in cui faceva catechesi, e noi lo seguivamo. Facevamo soprattutto animazione con i bambini: Giulia è bravissima, io all’inizio ero un po’ timoroso. Poi mi sono lasciato andare e mi sono goduto ogni singolo momento con loro. I bambini erano felicissimi del tempo che gli dedicavamo e noi siamo stati letteralmente sommersi dal loro affetto».
«Un giorno io e Roberto eravamo nella piccola chiesa di Bigene – continua Giulia -, ci siamo guardati e abbiamo detto: “Siamo io, te e Dio. Cosa ci manca? Perché non ci sposiamo? Ci siamo sentiti amati, protetti e custoditi, la stessa sensazione che avevo provato in Messico durante l’esperienza di Giovani e Missione. La sera prima di tornare in Italia abbiamo partecipato a un incontro con il vescovo di Bissau José Camnate, che, nel salutarci, ci ha detto: “Perché non tornate a sposarvi qui?”. Noi non avevamo parlato a nessuno della nostra intenzione, è stato come se ci avesse letto nel cuore».
Giulia e roberto tornano in Italia con un desiderio, che dapprima pare impossibile e poi diventa sempre più intenso: tornare a sposarsi in Guinea Bissau. «Per dare testimonianza che Dio è uno solo e ama tutti, che il matrimonio è importante farlo davanti a Dio, non conta il luogo dove sei. E noi in quella terra abbiamo sentito forte la sua presenza», spiega Giulia. A luglio, finito il corso fidanzati, Roberto e Giulia cominciano i preparativi per il matrimonio.
«La decisione di sposarci in Africa non è stata accolta con entusiasmo dalle nostre famiglie – confida Giulia -. All’inizio nessuno voleva venire». Poi qualcosa è cambiato. «Una sera ho parlato con mio papà, che è un valtellinese col carattere duro degli uomini di montagna. Gli ho aperto il cuore e gli ho detto che tenevo molto che mi accompagnasse all’altare. Alla sera siamo andati a dormire con un suo “no”. Al mattino ci siamo svegliati e mi ha detto: “Va bene. Quando andiamo?”. È sembrato quasi che qualcuno gli avesse parlato durante la notte!».
A dicembre del 2017 per la Guinea Bissau partono in 14: i genitori e due fratelli di Giulia, la mamma di Roberto, i due sposi e alcuni amici. «Ero d’accordo con la mia compagna di banco delle superiori che avrei usato il suo vestito: la prova è durata otto minuti, era perfetto – dice Giulia -. Ho vissuto il matrimonio che volevo: semplice, essenziale, vero, dove non si bada tanto al fotografo e al vestito. Il bouquet era di plastica, infilato in valigia dall’Italia. In missione abbiamo offerto il maiale per dare un pasto e ringraziare le persone che avevano trascorso il mese in missione con noi. Tutte le persone che sono venute sono state contente e in fondo io desideravo regalare loro questo: l’Africa che mi aveva dato tanto». Dopo il matrimonio nasce il desiderio di fare qualcosa di più. «Roberto ha guardato la missione da architetto e ci siamo chiesti cosa potevamo fare – racconta Giulia -. Visto che per scelta non abbiamo voluto nessun regalo per le nozze, alcuni amici e colleghi avevano raccolto dei soldi. Abbiamo pensato di indirizzarli a un progetto».
«Pensavamo di raccogliere fondi per la costruzione di un pozzo, ma poi ci siamo resi conto insieme a don Marco che ciò che serviva di più era una tettoia per incontri all’aperto – continua Roberto -. A Bigene si alternano periodi di caldo torrido a piogge scroscianti, quindi è essenziale avere uno spazio coperto ma arioso. La struttura servirà ai ragazzi della scuola della missione, ma anche per i corsi per i docenti e le donne in gravidanza. All’inizio raccogliere 25 mila euro, il costo per la realizzazione della tettoia, ci spaventava. Ma poi abbiamo realizzato un video in cui raccontiamo la nostra esperienza e il progetto. Abbiamo cominciato a presentarlo chiedendo ad altri di condividere questo impegno per chi ha più bisogno. Vedremo cosa inventarci per raccogliere fondi, ma vogliamo andare avanti in questa avventura, insieme».