Presentata questa mattina l’iniziativa “Il Papa per il Sud Sudan”, un gesto concreto di vicinanza a un Paese dove il Pontefice avrebbe voluto recarsi il prossimo ottobre. Presente anche suor Laura Gemignani, che opera nell’ospedale di Nzara, in una delle zone più tormentate del Paese
Non è facile arrivare a Nzara. Ci vuole davvero una grande determinazione e molta pazienza. Ma, soprattutto, non è facile rimanere in questo luogo alla fine del mondo. Resistono, apparentemente contro ogni logica di sicurezza, le missionarie comboniane che, in questa cittadina a mezzora circa da Yambio, capoluogo dell’Equatoria Occidentale, gestiscono un ospedale e molte altre attività, garantendo non solo un servizio sanitario, ma soprattutto un presidio di speranza.
Ed è proprio questo il senso della loro presenza tenace, che sfida con le armi della semplicità e della povertà, una situazione grave di conflitto e violenza. È un dramma nel dramma, quello dell’Equatoria Occidentale, regione a sud-ovest del Sud Sudan, al confine con Uganda, Repubblica Democratica del Congo e Centrafrica. C’è la guerra fratricida tra le fazioni contrapposte del presidente Salva Kiir e del suo ex vice Riek Machar che sta devastando anche il resto del Paese, ma c’è anche la continua instabilità provocata da quel che resta del Lord Resistance Army (Lra), l’esercito di liberazione del Signore, che – fuoriuscito dall’Uganda – sta destabilizzando i Paesi limitrofi oltre a gruppi di autodifesa allo sbando.
Ed è proprio qui che Papa Francesco ha voluto far arrivare un suo gesto personale di solidarietà, oltre che in un altro ospedale gestito dalle comboniane a Wau, a un progetto nell’ambito dell’educazione di Solidarity with South Sudan a Yambio e a un’iniziativa in campo agricolo di Caritas Internationalis nelle diocesi di Yei, Tombura-Yambio e Torit.
Saltato – per il momento – il viaggio in Sud Sudan previsto per ottobre, il Pontefice ha voluto dare un segno di vicinanza, presentato questa mattina in Sala Stampa Vaticana alla presenza del cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, che ha ricordato come «lontano dai riflettori, c’è una guerra che continua a mietere vittime. Morte e disperazione affliggono la popolazione. Il conflitto è in atto dal 2013 ed ha provocato una gravissima crisi umanitaria che vede più della metà della popolazione, circa 7,3 milioni di persone, soffrire quotidianamente la fame. La vita di migliaia di persone è messa a rischio da un’epidemia di colera senza precedenti; un milione e mezzo di abitanti è stato costretto a fuggire dai loro villaggi e città a causa della guerra; in questo Paese avvengono massacri e atrocità, sistematici e generalizzati, perpetrati contro civili per motivi etnici; donne e bambini sono quotidianamente vittime di violenze e abusi.
Con lui anche Michel Roy, segretario generale di Caritas Internationalis, suor Laura Gemignani, comboniana che lavora all’ospedale Nzara e suor Yudith Pereira-Rico, direttrice di Solidarity with South Sudan, iniziativa di solidarietà inter-congregazionale.
«Abbiamo un’emergenza per i bambini malnutriti a causa della guerra – spiega suor Laura Gemignani, 63 anni, che vive a Nzara da quattro -. Gli ambulatori accolgono ogni giorno un centinaio di persone e nel reparto degli ammalati di tubercolosi si trovano in media 50 pazienti. Da poco è stato aperto un centro trasfusionale per la cura dell’anemia falciforme. Sono davvero riconoscente a Papa Francesco per questo sostegno inaspettato, che rappresenta anche un grande incoraggiamento per il nostro lavoro».
Gestito dalla missionarie comboniane, insieme a varie altre attività, questo piccolo ospedale rappresenta l’ultimo e l’unico punto di riferimento per una popolazione allo sbando, continuamente minacciata e aggredita. «Dopo anni di conflitto – racconta suor Laura – il Paese si trova a piangere migliaia e migliaia di morti, feriti, mutilati, orfani un alfabeto purtroppo molto conosciuto dalle povere famiglie sudanesi. Oltretutto, con la guerra i prezzi delle poche cose rimaste sono saliti alle stelle, così come il trasporto che coinvolge le spese ospedaliere di normale gestione ed in particolare le medicine per i bambini».
Lei stessa è costretta a recarsi diverse volte l’anno sino a Kampala, in Uganda, a oltre mille chilometri di distanza, per rifornirsi di medicine e cibo. Ma spesso le strade sono rese insicure dai cosiddetti Arrow Boys (gruppi di autodifesa), che assaltano i mezzi e li derubano.
«Abbiamo bisogno d’aiuto, perché la presenza della comunità comboniana, al di là del servizio svolto con i bambini e i malati, è un forte segno di speranza per la gente. Anche per questo ringrazio molto la Fondazione Comboniane nel mondo onlus che in questi anni ci ha molto sostenute».
L’ospedale di Nzara ha una capacità di circa 140 posti-letti, con un reparto di pediatria di 68, e ha una media di un centinaio di visite al giorno negli ambulatori. Oltre alla cura di comuni patologie infettive e tropicali, viene garantito un servizio per la diagnosi e la cura di tubercolosi, lebbra e Aids, ma anche esami ecografici, ossigenoterapia e trasfusioni di sangue. Inoltre, vengono promosse attività di educazione sanitaria che hanno contribuito all’aumento di consapevolezza circa i benefici delle cure mediche ospedaliere rispetto a pratiche tradizionali presso sedicenti guaritori o stregoni.
Il tutto in un contesto di estrema precarietà, violenza, gente in fuga, minacce… Lo scorso gennaio, il vescovo di Tombura-Yambio, Eduardo Hiiboro, aveva lanciato un appello per sette delle sue parrocchie coinvolte negli scontri. «Quello che è successo dopo è stata una vera e propria catastrofe umanitaria», aveva denunciato il vescovo, ricordando che le violenze continuano a colpire soprattutto la popolazione civile e a provocare migliaia di sfollati e profughi fuggiti in Repubblica Democratica del Congo, Centrafrica e Uganda. Attualmente, il Sud Sudan è uno dei Paesi al mondo con il numero più altro di persone in fuga: 3,3 milioni.
Anche le missionarie comboniane di Nzara vivono in modo povero e precario; tutto è essenziale nella loro casa, ma tutto è dignitoso. Come la scuola, il centro di formazione per le donne e la Rainbow Community. Quest’ultima è una sfida coraggiosa per il diritto alla vita e alla dignità all’interno della sfida più ampia e condivisa per la sopravvivenza. Perché a Rainbow si parla e si tratta l’Aids, che è una piaga che si è abbattuta in questa regione in maniera più catastrofica che altrove: perché è una zona di frontiera e di guerra, una zona di passaggio e di militari, di promiscuità e di ignoranza.
Ecco perché suor Laura e le sue tre consorelle rappresentano un avamposto di resistenza, cura e vicinanza alla gente che aiuta a far “respirare” in un luogo che troppo spesso parla solo di sofferenza e di morte.