Autonomia economica e autonomia di pensiero. Sono i presupposti per affrontare le grandi sfide che la Chiesa d’Africa si trova a vivere oggi. Parla il vice rettore dell’Università cattolica dell’Africa occidentale, padre Benjamin Akotia
Inculturazione, identità, autonomia, giovani, sinodalità, omosessualità… È un fiume in piena padre Benjamin Akotia quando si tratta di riflettere sui temi e sulle sfide che la Chiesa africana si trova a vivere oggi. Con uno sguardo da dentro e da fuori. Padre Akotia, infatti, è originario del Togo, ma è abituato a discutere e a confrontarsi a cavallo fra due continenti: quello di origine, l’Africa, e quello in cui ha studiato e dove spesso torna, l’Europa. Classe 1965, seminarista in Italia, è stato ordinato sacerdote a Lodi e ha proseguito gli studi in Sacra Scrittura e Antropologia a Strasburgo, dove ha conseguito entrambe le lauree. Decano della facoltà di Teologia dell’Università cattolica dell’Africa Occidentale (Ucao), con sede ad Abidjan, in Costa d’Avorio da febbraio 2023 ne è diventato vice rettore. Ma padre Akotia resta un viaggiatore, nei fatti e nel pensiero. E dunque, viene spontaneo affrontare innanzitutto il tema dell’inculturazione, una questione centrale nel primo Sinodo dei vescovi per l’Africa nel 1994, così come nelle riflessioni e nelle pratiche di quegli anni, ma che successivamente sembra essersi un po’ “persa”.
È proprio così padre Benjamin?
«Quand’ero seminarista e quando poi sono diventato prete si parlava molto di inculturazione e si facevano tanti sforzi anche per introdurre elementi nuovi nella liturgia. L’inculturazione, però, non sembra più essere la sfida di oggi. Anzi, vedo un movimento contrario. Si cerca paradossalmente di assomigliare di più all’Occidente. E la cosa è preoccupante, anche perché tanti sforzi si stanno perdendo. La generazione che mi ha preceduto e anche la mia hanno avuto un confronto diretto con i missionari. L’inculturazione era vissuta anche come ricerca di un’identità. Oggi ho l’impressione che ci si preoccupi di più di fare come fanno tutti: nelle nuove generazioni di preti, anche in Africa, vedo un ritorno al tradizionalismo o forse una certa superficialità e pigrizia. Non ci sono più spinte, neppure per rivendicare di essere se stessi. È come se, invece di andare dal sarto per farsi fare un vestito su misura, se ne compri uno già fatto, magari di seconda mano».
Questa ricerca di identità, però, sembra emergere più attraverso l’opposizione all’Occidente che attraverso dinamiche propositive e innovative…
«Il sentimento anti occidentale a volte è un modo per esprimere il fatto che non ci si vuole più sentire inferiori, che non si accettano più le lezioni degli altri. Ma non nel modo giusto. Pensiamo di essere alla pari perché sappiamo fare quello che fanno gli europei. È un problema di riflessione su noi stessi. Chi siamo veramente? In che cosa siamo capaci? Che cosa possiamo portare di autenticamente nostro?».
Anche dal punto di vista teologico faticano a emergere figure o scuole come ce ne sono state in passato.
«Nelle università, anche alcuni grandi del passato come Jean Marc Ela o Engelbert Mveng e altri ancora vengono a malapena citati. Anche perché si ritiene che nella loro riflessione teologica abbiano usato le categorie del pensiero occidentale. È stato un ciclo che si è chiuso. Ora, il ciclo nuovo che timidamente si sta aprendo è quello di una teologia che parte dalle tradizioni africane, ad esempio rileggendo la Bibbia nel modo in cui tramandiamo i nostri racconti. L’atteggiamento non è più quello di “purificare” la cultura africana, ma di capirla e di servirsene per rileggere Cristo, i sacramenti, Dio, il nostro modo di vivere».
Ma quali sono oggi i grandi temi e le grandi sfide della Chiesa in Africa?
«La prima, può sembrare banale, ma forse è la più importante, è la sfida economica. Apprezziamo la generosità di una madre che ci ha nutriti, ma è arrivato il momento dello svezzamento. È una fase delicata sia per il “bambino”, che per la stessa “madre”. Ma questo processo deve avvenire nella pace per evitare inutili traumatismi. Personalmente sono ottimista. Vedo nascere tante cose, vedo che stiamo diventando molto inventivi. E vedo che la Chiesa africana cresce in fretta, non solo nei numeri. E comunque credo che non abbiamo scelta. Solo se non si dipende da altri, solo se si è autonomi, si diventa anche capaci di produrre un proprio pensiero».
Su che temi in particolare?
«Penso che l’Africa possa finalmente dire come vuole vivere il cristianesimo. Ci sono dei segnali. Ad esempio, i temi della stregoneria o della poligamia non li abbiamo ancora trattati approfonditamente in uno spirito cristiano africano, usando i nostri schemi, le nostre categorie. Non è il caso, invece, per la questione della benedizione delle coppie omosessuali, che in Africa è vissuta come un tema marginale, peggio, come una cosa imposta da altrove. Solo se la Chiesa d’Africa saprà affrontare sfide e priorità che sente più sue e più urgenti, il cristianesimo africano avrà finalmente un proprio volto e darà il suo contributo al patrimonio del cristianesimo universale».
È quello che sta già accadendo con il Sinodo sulla Sinodalità?
«L’Africa è il continente che probabilmente ha vissuto più intensamente questo percorso:w ci crede molto, anche perché corrisponde ai modi di funzionare delle nostre società, che hanno al centro la parola. Si parla e si va avanti piano piano. Tutti parlano. E il capo non parla mai solo a nome suo. Quando lo fa, è perché tutti gli altri hanno già parlato. C’è già un forte senso di sinodalità nelle nostre comunità».
E i giovani come vivono la loro appartenenza alla Chiesa? In molti contesti, anche africani, sembra che a un certo punto della loro vita se ne allontanino, che non trovino più stimoli per la loro fede e la loro esistenza…
«È difficile generalizzare. Vediamo molti giovani che scoprono la fede cristiana quando dai villaggi arrivano in città o in università, dove incontrano qualcuno che è cristiano. Per alcuni la Chiesa è sinonimo di “modernità” e di tutto ciò che il mondo occidentale rappresenta. Ma noi non “vendiamo” la modernità, noi annunciamo Gesù Cristo, un annuncio di salvezza. D’altro canto, vediamo anche tanti giovani che passano le giornate sui social che oggi hanno l’effetto di prolungare e amplificare i cambiamenti culturali epocali che le nostre società hanno attraversato anche nell’incontro con l’Occidente. Ci appaiono omologati, ma è solo un’impressione di superficie. La “pasta” di cui sono fatti, quella che lo schermo o il cellulare plasmano, non è la stessa di un giovane occidentale. E anche le risposte di fede devono tenere conto di quella “pasta” e di tutto quello di cui è fatta in termini di cultura, tradizioni, categorie di pensiero. E anche modi di vivere la fede».
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