Sister Deborah, il nuovo romanzo di Scholastique Mukasonga, attinge alla cultura del suo Paese e al sincretismo nato dall’incontro fra il cristianesimo con le credenze tradizionali
Ruanda, anni Trenta del secolo scorso. Il potere coloniale sul piccolo Paese africano è passato dai tedeschi ai belgi, che dominano il vicino Congo. Cacciati i missionari protestanti, ora sono i Padri bianchi, cattolici, a diffondere il Vangelo. Per quanto la popolazione si mostri disponibile ad accogliere la religione portata dagli europei, i missionari devono fare i conti con la cultura locale e con credenze fortemente radicate. È questo lo scenario in cui si svolge la storia raccontata nel romanzo Sister Deborah, appena pubblicato in italiano da Utopia (pp. 136, euro 18).
L’autrice, Scholastique Mukasonga, è nata 66 anni fa in Ruanda. Trapiantata in Francia un paio d’anni prima del genocidio, è una voce significativa della diaspora ruandese. I suoi libri hanno aiutato i lettori europei a conoscere gli orrori del 1994, quando in cento giorni persero la vita circa un milione di ruandesi tra tutsi e hutu moderati. La scrittrice nutre anche un particolare interesse per la cultura del suo Paese e per come riuscì a sopravvivere durante il periodo coloniale, malgrado i tentativi europei di cancellarla. Dopo Kibogo è salito in cielo, in cui il protagonista salva la sua terra dalla siccità ed è assunto in cielo come Gesù Cristo, l’ultimo romanzo di Mukasonga, con uno stile lieve e al contempo potente, affronta la convivenza fra tradizione locale e innovazioni imposte dai dominatori, ponendo le donne al centro della narrazione.
Sister Deborah si apre con la piccola Ikirezi, di salute cagionevole, portata dalla madre da una guaritrice presso l’unica missione gestita da missionari neri, provenienti dall’America. Qui una donna, Sister Deborah, impone le mani per guarire donne e bambini, come i re taumaturghi nel Medioevo. Con l’appoggio di un capo locale ostile ai padri europei, la missione guidata dal reverendo Markus cresce di giorno in giorno proprio grazie alla presenza di Deborah e di una ritualità fatta di canti, danze, tamburi più vicina al cuore degli africani. La profetessa predice che il Salvatore giungerà su una nuvola, ma sarà una donna, e per giunta nera. Libererà le donne dall’obbligo di lavorare i campi, spargendo su tutto il Ruanda i semi di una pianta nuova, che sazierà tutti eliminando la fatica.
Sister Deborah appicca involontariamente il fuoco del malcontento tra le donne ruandesi, oberate di lavoro e di bimbi da badare, arrabbiate con gli uomini che si ubriacano di birra e le picchiano. La presenza della profetessa dà l’avvio a uno sciopero delle donne dai propri obblighi, un po’ come ai tempi di Lisistrata di Aristofane. Una simile ribellione non può essere tollerata, né dai mariti, né dalle autorità coloniali. La violenta repressione rende incerto il destino di Sister Deborah. È morta, oppure è fuggita? Come in un giallo, spetterà a Ikirezi, nel frattempo cresciuta e diventata una docente universitaria, scoprire la verità.
Abbiamo chiesto alla scrittrice ruandese che cosa l’ha ispirata nell’ideazione di questo romanzo.
«Per Sister Deborah mi sono effettivamente ispirata a un fatto reale – racconta -. Nel 1927, sulle rive del lago Muhazi, al centro del Ruanda, un profeta annuncia che una donna di nome Ndanga sorgerà dal lago: distribuirà semi di sorgo miracolosi che eviteranno alle donne il lavoro nei campi e caccerà i coloni. Le seguaci di Ndanga fanno appello agli chef e alla corte reale perché si uniscano a loro. Inascoltato, il movimento viene represso dalle truppe coloniali. E come Ndanga, anche la messia nera annunciata da Sister Deborah porterà una semente miracolosa».
La religione tradizionale riconosceva un ruolo importante al femminile, che può essere divinità, profetessa…
«Sister Deborah sembra, agli occhi delle donne, perpetuare le profetesse e taumaturghe tradizionali possedute dallo spirito femminile noto come Nyabingi. Sister Deborah viene assimilata a tali guaritrici perché, tra l’altro, possiede la canna magica che è il loro segno distintivo e ha il potere di guarire le malattie di donne e bambini».
Com’ è stata in Ruanda la convivenza fra il cristianesimo portato dai colonizzatori e la religione tradizionale?
«La deposizione nel 1931 del re Musinga, ostile al cristianesimo, e la sua sostituzione con uno dei suoi figli favorevole invece ai missionari induce gli chef locali a una massiccia conversione, seguiti dall’intera popolazione contadina. Ma le credenze tradizionali spesso sussistono sotto parvenza di devozioni cristiane. Così, per molti studiosi, la Vergine Maria ha preso il posto di Nyabingi e, per quanto riguarda le confessioni evangeliche, lo Spirito Santo che s’impossessa dei born again è molto simile agli spiriti tradizionali imandwa».
C’è qualcosa della religiosità tradizionale che sopravvive oggi in Ruanda nelle nuove generazioni?
«La colonizzazione, ma soprattutto i Padri bianchi, hanno cercato di sradicare le antiche credenze. Dopo il genocidio, per ricostruire il Paese i ruandesi hanno dovuto richiamarsi alle tradizioni comuni a lungo bandite e considerate “pagane”. È tornata così in auge una festività nazionale, l’Umuganura, la festa del sorgo che ogni anno celebrava l’unità del Paese. E se i miei libri sono sempre attesi e ben accolti dagli studenti in Ruanda, è perché ritrovano, in numerosi passaggi, le loro tradizioni per cui metto tutto il mio cuore nel scriverli».
E si sente. Per il lettore italiano, ogni romanzo di Scholastique Mukasonga è una porta aperta sulla sua terra d’origine. Una prosa amabile e personaggi che non si dimenticano facilmente, come Sister Deborah, sono la cifra di una scrittrice di talento.