Il missionario laico può essere testimone credibile attraverso le opere, vivendo con la gente, facendosi presenza. La testimonianza di fratel Marco Monti del Pime, che dopo una lunga esperienza in Thailandia, oggi è nel Sud della Tunisia
Sono trent’anni che vivo nella realtà del Pime, di cui quasi 21 in missione. Il primo tirocinio da missionario laico in cerca di una verifica alla propria vocazione l’ho fatto in Cambogia, un periodo che chiamavamo di training, per verificare appunto se c’era effettivamente una capacità di adattarsi e di vivere lo spirito missionario. È stata un’esperienza che non dimentico perché è stata molto bella e ha lasciato segni indelebili. Il periodo più lungo di missione l’ho vissuto in Thailandia, come direttore di un centro per disabili. Ora, dopo un’esperienza intensa e impegnativa nella Direzione generale dell’Istituto in Italia, vivo da tre anni e mezzo a Tozeur nel Sud della Tunisia.
La mia esperienza di missionario laico si è realizzata prima in contesti buddhisti e attualmente in ambito musulmano, dove la presenza cristiana si attesta attorno allo “zero virgola” per cento della popolazione. Se poi parliamo di cattolici, allora siamo ancora meno. È questo il contesto in cui ho sempre lavorato: non ho mai fatto catechesi, mai mi sono occupato di pastorale, mai ho vissuto in una casa parrocchiale. Questo ha segnato molto anche il mio modo di pensarmi e di lavorare in missione, credo infatti che il missionario laico possa essere testimone credibile attraverso le attività e le opere, vivendo con la gente, facendosi presenza.
Sono stato in situazioni in cui l’annuncio esplicito si può fare ma con difficoltà immense. Sono arrivato al punto in cui, dopo 14 anni in Thailandia, ero contento se potevo almeno suscitare delle domande a cui probabilmente non avrei saputo dare risposte. Però almeno con il mio stare con la gente, con la mia presenza – come succede anche adesso in Tunisia – si crea uno spazio di condivisione quotidiano. Stiamo con le persone di questi mondi, in culture e sistemi religiosi diversi, quindi l’“esserci” diventa annuncio non esplicito che però può portare, magari dopo molti anni, a far chiedere a chi ci incontra: «Perché è qui?».
Il “perché” e il “come” sono le due cose fondamentali del nostro essere in missione. Cerchiamo di vivere in maniera concreta e spero anche profonda la vocazione, che vuole essere un segno di gioia e di speranza in Cristo risorto. In ambiente buddhista ci sono categorie e modi di pensare l’uomo – figuriamoci Cristo! – che sono totalmente altro; a volte il nostro linguaggio è inadeguato a trasmettere qualcosa, anche perché si parlano lingue molto complesse che riflettono una cultura e un modo di pensare la persona diverso dal nostro. Nell’islam può nascere l’equivoco sulla figura di Gesù. Egli è menzionato diverse volte nel Corano ed è conosciuto e rispettato perché considerato come uno dei massimi profeti che alla fine dei tempi sarà, secondo la loro tradizione, inviato a chiudere l’esperienza umana perché combatterà l’anticristo o l’anti-Messia («Dajjal»). Quindi dobbiamo stare molto attenti perché, se da un lato è difficile entrare in certe categorie di pensiero, dall’altro c’è la possibilità di creare equivoci che rendono sterile o impossibile ogni tentativo di dialogo.
Altra difficoltà è quella di vivere un impegno che ci occupa 24 ore su 24. Ma proprio questo essere impegnato totalmente è stata una delle ragioni che mi ha spinto a fare la scelta di entrare nel Pime: per vivere e morire con loro e per loro, che non sono cristiani, sono “altro”.
Il “come” è pensarsi in quanto strumento. Prendo in prestito una frase che mi è molto piaciuta di santa Teresa di Lisieux che dice che «senza l’amore tutte le opere sono nulla». Quindi questo modo di fare – che ha dei contenuti un po’ particolari e un po’ “pilotati” da un Altro – è innanzitutto un gesto di gratuità. Quello che facciamo è operato da Dio; noi siamo uno strumento che lascia passare questa gratuità e questa carità.
Ho visto che questo colpisce molto la gente, ovunque. Ho sperimentato anche, mentre ero nella Direzione generale del Pime, cosa significa aprire un progetto partendo da zero nel nord dell’India, specialmente nel settore della disabilità, e vedere come questa gratuità sia venisse sempre ben accolta. Non è una questione di soldi, è una questione di atteggiamento, e quest’ultimo diventa importante. Il laicato in missione, non è tanto un valore aggiunto, ma un valore essenziale e unico: per la mia esperienza, il laico è quello più esposto, è quello che necessariamente vive alla pari con tutti e con tutto ciò che lo circonda.
Io vedo nella missione attuale un rischio: quello di viverla in pantofole, nello spazio vitale della nostra casa, in cui si ripetono ad orari stabiliti piccoli gesti quotidiani, piccoli riti senza mai uscire, capire ciò che è fuori. Mentre penso – e per questo ritengo abbastanza unica l’esperienza laicale – che si debba vivere con i sandali, sempre pronti ad uscire sulla strada, a sporcarsi i piedi, a lasciare che qualche sasso ci faccia male, a mischiarsi nel mondo e ricondurre la creazione verso Dio e quindi invitare l’essere umano ad alzare lo sguardo.
So che la missione è una cosa complessa, perché non è solo un partire lancia in resta per portare la verità. È qualcosa che può mettere in crisi parecchio anche sotto l’aspetto fisico; io passo l’estate a 48 gradi e poi vivo inverni terribilmente freddi, perché il deserto è così. E poi c’è l’aspetto psicologico. Il guerriero parte a cavallo e poi quando lo perde si chiede: «Che cosa faccio io qui?». C’è questo senso di svuotamento che spesso non si può evitare. Il rischio è anche quello di vivere una missione molto ideale e poco concreta.
Concludo con un elogio fondamentale della donna nella missione, a partire dalla mia esperienza perché sempre ho lavorato e lavoro principalmente con donne locali e volontarie straniere, che sono un motore incredibile perché hanno una capacità straordinaria di comprendere il lavoro e di impegnarsi che gli uomini non hanno. Questo l’ho visto in tutti i contesti, musulmano, buddhista e induista, cioè in quei luoghi dove si crede che la donna sia meno considerata. In questi mondi la donna missionaria ha una grande possibilità di creare relazioni e la possibilità di essere più accolta perché non legata a ruoli di potere tipici del mondo maschile e quindi meno minacciosa. Per questo può creare una rivoluzione non dall’alto, ma dal di dentro.