Sono 121 i casi di coronavirus registrati in 12 di Paesi africani. Due i morti, un’anziana marocchina rientrata dall’Italia e un turista tedesco in Egitto. L’Africa sarebbe “immune” al coronavirus? O è solo una questione di tempo? Intanto, solo oggi un aereo del Sudafrica riporterà a casa 122 cittadini sudafricani rimasti bloccati a Wuhan
In Italia e nel mondo, la diffusione del coronavirus sembra non arrestarsi, al punto che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è stata costretta a definirla una pandemia: ad oggi, 12 marzo 2020, si stimano circa 120 mila contagi e 4.200 morti in un centinaio di Paesi. In Africa, però, il numero dei casi accertato è estremamente limitato. Ma il livello di allarme è alto: «La nostra più grande preoccupazione è che il virus possa diffondersi in Paesi con deboli sistemi sanitari», ha dichiarato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore dell’Oms, originario dell’Etiopia. E certamente Ghebreyesus aveva in mente proprio Paesi come il suo, dove l’accesso alle cure mediche è spesso un privilegio per pochi.
Il quadro della situazione
Attualmente ci sarebbero 121 casi di coronavirus in 12 Paesi africani. Il più colpito è l’Egitto, dove si registrano 67 casi di persone contagiate, la maggior parte delle quali ha contratto il virus durante una crociera sul Nilo: anche l’unico decesso riguarda un turista tedesco. Segue l’Algeria, con 20 casi, il primo dei quali un italiano. Lo stesso in Nigeria, dove un nostro concittadino è stato trovato positivo e attualmente si registrano due casi. Sono invece cinque in Tunisia, quattro in Senegal, tre in Marocco (con il decesso il 10 marzo di una donna di 80 anni di ritorno da Bologna), due in Camerun e in Burkina Faso (una coppia da poco rientrata dalla Francia), uno in Costa d’Avorio (di ritorno dall’Italia), Togo e Repubblica Democratica del Congo (un cittadino belga).
- Egitto: 67
- Algeria: 20
- Sudafrica: 13
- Tunisia: 5
- Senegal: 4
- Marocco: 3
- Camerun: 2
- Burkina Faso: 2
- Nigeria: 2
- Togo:1
- Costa d’Avorio: 1
- Repubblica Democratica del Congo: 1 (dati al 12.03.2020)
Non si registrano attualmente casi in Africa orientale anche se ci sono molte persone messe in quarantena in via precauzionale. Proprio oggi le autorità sanitarie del Kenya hanno concesso a 12 cittadini cinesi arrivati a Machakos il mese scorso di circolare liberamente dopo un periodo di auto-isolamento. Intanto, il sistema sanitario locale ha predisposto almeno cento posti-letto e più di mille operatori sanitari allertati per l’aeroporto Jomo Kenyatta di Nairobi e in altre aree.
Il caso-Sudafrica
Insieme all’Egitto, la situazione più allarmante in questo momento riguarda il Sudafrica, dove sono stati registrati 13 casi di contagio: si tratta di persone rientrate da viaggi all’estero e molte di loro dell’Italia. Altre 122 persone rientreranno solo domani da Wuhan, finalmente “liberati” dall’isolamento forzato nell’epicentro del virus. «Andate in fretta, andate con Dio, e portate a casa i nostri figli». Così il presidente Cyril Ramaphosa, ha “benedetto” il volo, partito martedì 10 marzo dall’aeroporto di Johannesburg. Un’iniziativa che ha fatto molto discutere, sia per l’evidente intempestività, sia per i costi (1,6 milioni di dollari). Tra i rientranti, nessuno mostra segni di malattia, ma verranno posti in quarantena per 21 giorni. Intanto, il South Africa’s National Institute for Communicable Diseases continua a monitorare la situazione del Paese.
Chi controlla?
Quello sudafricano è uno dei pochi istituti affidabili nel continente per un monitoraggio accurato e tempestivo delle malattie infettive. Un altro è in Nigeria – il Centre for Disease Control – che pubblica report quotidiani e che ha messo a disposizione un numero verde. Tuttavia, proprio in Nigeria sarebbero state individuate più di 200 persone venute in contatto con l’italiano risultato positivo, ma solo 33 sono state testate. E nella maggior parte degli Stati africani non esistono dati affidabili. Anche di qui le perplessità circa una probabile sottostima della diffusione del coronavirus in Africa.
«È possibile che ci siano casi misconosciuti», commenta il dottor Alberto Piubello, che vive da 25 anni in Africa ed è esperto di tubercolosi e malattie infettive. Molti contagiati probabilmente non presentano sintomi e anche la gran parte dei casi confermati è asintomatica. Inoltre, gli esperti ritengono che la giovane età di gran parte della popolazione africana (in media attorno ai vent’anni) e il clima generalmente caldo facciano da freno alla diffusione del virus. Se, tuttavia, questa situazione apparentemente favorevole non venisse confermata si andrebbe incontro a conseguenze catastrofiche nella maggior parte dei Paesi, dove i sistemi sanitari sono estremamente fragili e «le rianimazioni sono un lusso che non esiste quasi da nessuna parte», precisa il dottor Piubello, che ha lavorato in diversi Paesi del continente.
Che cosa si è fatto?
Non si può dire, tuttavia, che sin qui non si sia fatto nulla per prevenire e contrastare la diffusione del Covit-19. In gennaio, ad esempio, solo Sudafrica e Senegal disponevano dei kit per i test. Attualmente, 33 di 47 Paesi subsahariani ne sono provvisti. L’Istituto Pasteur di Dakar ha realizzato training in 35 laboratori di diversi Paesi per effettuare test del coronavirus. «Di solito – ha dichiarato il suo direttore, il dottor Amadou Sall, forte anche dell’esperienza di contrasto a Ebola in Africa occidentale – si perde tempo a inseguire un’epidemia quando si è già sviluppata. In questo caso eravamo preparati».
In Ruanda, dove attualmente non ci sono casi accertati, sono stati mobilitati studenti di medicina dell’ultimo anni per lo screening all’aeroporto di Kigali. Nella capitale sono stati vietati concerti e raduni e sono state installate fontanelle per lavarsi le mani nelle stazioni dei bus.
Molti Paesi, inoltre, hanno vietato i viaggi all’estero. I ministri della Sanità dei 16 Stati dell’Africa australe, ad esempio, hanno deciso che tutti i meeting ufficiali verranno svolti in video conferenza. Ghana e Gabon hanno vietato a tutti i pubblici ufficiali di viaggiare al di fuori dei loro Paesi. Il Kenya ha proibito anche le trasferte internazionali dei propri atleti per i prossimi sei mesi oltre ai meeting internazionali.
L’appello delle Chiese
Anche le Chiese si sono mobilitate, sia a livello continentale che a livello locale. Il Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Scam/Sceam), riunitosi ad Addis Abeba dal 4 al 7 marzo, ha diffuso un comunicato e una preghiera: «Esprimiamo la nostra solidarietà e vicinanza a coloro che sono stati colpiti da questa epidemia sconosciuta e preghiamo che si possa presto trovare un trattamento efficace ed economico per farvi fronte. Nel frattempo, raccomandiamo fortemente alle nostre persone di adottare il più alto livello di misure preventive per frenare la diffusione di questa malattia».
«Padre onnipotente e misericordioso – scrivono i vescovi africani nella preghiera – ascolta le preghiere che ti offriamo per le persone colpite dal virus in varie parti del mondo. Concedi guarigione ai malati, la vita eterna ai defunti e la consolazione alle famiglie in lutto. Preghiamo che si possa trovare rapidamente una medicina efficace per combattere la malattia. Preghiamo per i governi e le autorità sanitarie competenti affinché prendano le misure appropriate per il bene delle persone».
Anche a livello locale, le diverse Chiese hanno preso vari provvedimenti. A Lagos, in Nigeria, l’arcivescovo Alfred Martins, ha chiesto di ridurre i contatti fisici durante le celebrazioni, ha posto il divieto sulle aspersioni con acqua benedetta e imposto la comunione sul palmo della mano. In Sudafrica, il cardinale Wilfried Napier, arcivescovo di Durban, ha invitato i fedele a non recarsi in chiesa in caso di sintomi, a lavarsi le mani prima di entrare e a disinfettarsele nel caso di preti o diaconi che distribuiscono la comunione, così come a non scambiarsi il segno di pace. Stesse raccomandazioni in Ghana, dove la Chiesa si è allineata alla misure presa dalla Direzione nazionale della Sanità. La Conferenza episcopale regionale, che include Senegal, Guinea Bissau, Mauritania e Capo Verde, ha invitato «tutti i fedeli a rispettare le misure sanitarie in vigore», ma anche a non scoraggiarsi: «La nostra missione non si ferma qui. Al contrario, continua sempre più determinata e convinta».
Frodi, fughe, fear
In Uganda, dove per il momento non si registrano casi di coronavirus, la polizia ha arrestato due persone – padre e figlia – che vendevano falsi vaccini. Mentre in Zimbabwe, un giovane thailandese, sospettato di avere il coronavirus, è fuggito dal Wilkins Hospital di Harare in cui era stato messo in quarantena, creando non poca preoccupazione. Il giovane ha fatto poi ritorno ed è risultato negativo al test, ma il suo gesto sconsiderato ha generato paura e speculazioni. Che oggi, anche in varie parti dell’Africa, rappresentano una vera sfida. Più velocemente della malattia, infatti, si sono diffusi timori, rumors e pregiudizi, alimentati in particolare da video virali (pure loro!), che hanno preso di mira in particolare i lavorati cinesi presenti nel continente (che sono bel 200 mila!). Peccato che – nonostante gli strettissimi rapporti economici e commerciali che legano Cina e Africa – il coronavirus sia arrivato nel continente principalmente attraverso turisti e lavoratori europei.
Economia malata
Il forte legame tra Cina e Africa avrà invece ripercussioni estremamente negative sull’economia. Se frena quella cinese, frena anche quella africana. Ma se frena quella cinese, frena l’economia mondiale. E le fragili economie africane rischiano di farne le spese più di altre. Già oggi i prezzi delle materie prime di cui l’Africa è ricchissima (a cominciare dal petrolio) stanno già crollando. Questo potrebbe avere effetti nefasti su economie poco diversificate come quelle africane che dipendono dalle entrate delle materie prime e su Paesi già fortemente indebitati, con bilanci deboli, scarse capacità di riscossione delle imposte. E con le monete già oggi sotto pressione.