Lo ha denunciato un rapporto dell’Onu che parla di violenze sessuali sistematiche. E che racconta di un Paese allo stremo, dopo due anni di guerra civile
Quella del Sud Sudan «è una delle più orrende situazioni dei diritti umani al mondo, con un uso diffuso dello stupro come strumento per terrorizzare e come arma di guerra». È quanto ha affermato Zeid Ràad al-Hussein, Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, in occasione della presentazione, lo scorso 11 marzo a Ginevra, di un rapporto dell’Onu da cui emergono moltissime dettagli raccapriccianti di una guerra di cui nessuno parla.
Il conflitto civile in Sud Sudan scoppiato nel dicembre 2013 e tuttora in corso – nonostante la firma di un accordo di pace nell’agosto del 2015 – avrebbe provocato più di 50 mila morti e oltre due milioni di sfollati su una popolazione di 11 milioni; quasi quattro milioni di bambini sono gravemente malnutriti.
«Crimini contro l’umanità e crimini di guerra sono continuati per tutto il 2015 e sono stati perpetrati principalmente da parte del governo», ha denunciato David Marshall, coordinatore di un team di valutazione dell’Onu inviato nel Paese. Dove le prime vittime di questa guerra fratricida – che oppone le forze governative fedeli al presidente Salva Kiir e le milizie del vice presidente Riek Machar (ma anche altri gruppi di oppositori) – sono le persone più vulnerabili. A cominciare dalle donne, prese di mire in una campagna sistematica di violenze e stupri.
Secondo il rapporto dell’Onu, i soldati governativi e le milizie alleate sarebbero i primi responsabili di violenze sessuali su vasta scala, legittimate o incentivate dalle stesse autorità, come ricompensa per chi combatte (e magari non riceve alcun stipendio). Il team di investigatori dell’Onu denuncia una specie di tacito accordo che avrebbe permesso ai militari di «fare tutto quello che potevano e prendersi tutto quello che riuscivano», compreso il furto di bestiame e di altri beni.
«Lo stupro è sicuramente usato in maniera sistematica come arma per umiliare le popolazioni rivali. Che venga usato come forma di pagamento dei soldati e dei miliziani lascia però perplessi -commenta all’agenzia Fides una fonte della Chiesa locale -. Piuttosto ai combattenti viene lasciata libertà di saccheggio. Detto questo, il rapporto dell’Onu è sicuramente attendibile. Abbiamo visto i componenti della commissione d’inchiesta fare un lavoro accurato sul terreno fino alla fine di gennaio, incontrando e intervistando testimoni locali. L’uso sistematico dello stupro di massa per umiliare l’avversario è terribilmente vero e diffuso»
Nelle 102 pagine del rapporto, si punta il dito anche contro le forze dell’opposizione che sarebbero responsabili di atrocità, ma a un livello inferiore. Nel 2015, sino a novembre, 10.533 civili sono stati uccisi, la maggior parte in modo deliberato. Gli inviati Onu hanno poi documentato più di 1.300 casi di stupro tra aprile e settembre solo nello Stato di Unity, uno dei più devastati dal conflitto, e più di 50 casi tra settembre a ottobre. Alcune donne avrebbero raccontato di essere state obbligate a diventare “mogli” dai soldati e tenute come schiave sessuali in baracche, dove venivano ripetutamente violentate. In alcuni casi gli assalitori hanno ucciso le donne che resistevano alla violenza o mostravano di non essere in grado di sopportare i continui stupri di gruppo.
Sempre nello stato di Unity si è registrato anche uno degli episodi più gravi citati dal rapporto: la morte per soffocamento di una sessantina di persone in un container dove erano state rinchiuse, sotto il sole cocente, dalle truppe filo-governative.
Secondo Marshal, in questo Stato «il governo ha fatto pressione, con la sua leadership militare e con quella politica, per sfollare, uccidere, stuprare, rapire e saccheggiare larghe porzioni di popolazione civile». Tra ottobre e gennaio, l’Onu ha registrato un numero raccapricciante di civili, tra cui donne e bambini, impiccati agli alberi, bruciati vivi, uccisi e fatti a pezzi con il machete. Sotto attacco sono finiti anche ospedali, chiese e moschee.
Un altro gravissimo episodio si è registrato nella notte tra il 18 e il 19 febbraio, a Malakal: più di 40 persone sono state uccise e oltre 90 sono rimaste ferite nello scontro tra giovani dinka e shilluk nel campo per sfollati allestito in una base dell’Onu. I Caschi Blu hanno cercato di disperdere con i gas lacrimogeni le due fazioni. Ma la situazione è precipitata quando i soldati governativi hanno fatto irruzione per dare man forte ai giovani dinka che avevano assalito altri rifugiati. Secondo Radio Tamazuj, dai 50 ai 100 militari dell’esercito sud-sudanese (Spla) sono entrati nel campo per poi sparare sui civili, saccheggiare i loro beni e incendiare le tende di plastica sotto le quali si riparano i rifugiati.
In questi mesi, il conflitto si è esteso e intensificato anche nelle regioni meridionali e in particolare nello Stato del Western Equatoria, dove si contrappongono militari governativi e gruppi locali, conosciuti come “Arrow Boys”. Cominciata nel maggio 2015, questa “guerra nella guerra” ha già provocato centinaia di morti e più di 80 mila persone sono state costrette a fuggire dalle loro case, spesso saccheggiate e distrutte. In gennaio, centinaia di sud-sudanesi hanno abbondando la capitale di questo Stato, Yambio – divenuta una città-fantasma dopo i violenti scontri di dicembre – per cercare rifugio nella confinante Repubblica Democratica del Congo, dove però sono totalmente privi d’assistenza umanitaria, senza riparo, cibo e assistenza sanitaria.
A fare le spese di questa gravissima situazione di insicurezza sono state anche le missionarie che insegnano presso il Teacher Training Institute di Yambio, preso di mira lo scorso 28 dicembre da cinque uomini armati. «L’attacco alle religiose ha scosso tutta la Chiesa», ha commentato il vescovo Edward Hiiboro Kussala, che ha chiesto nuovamente a tutti i gruppi di cessare le ostilità e di riportare la pace. Purtroppo, ha aggiunto, «la violenza e la strategia della paura sembrano crescere ovunque».