Viaggio nei campi dell’Uganda, dove si sono riversati più di un milione di profughi sud-sudanesi. Quattro su cinque sono donne e bambini e il flusso sembra non esaurirsi mai. Per questa umanità ferita che prova con grande dignità a sopravvivere a una crisi terribile questa sera la preghiera del Papa in San Pietro
dall’inviata a Siripi (Uganda)
Fuori dal centro sanitario di Siripi, nel distretto di Arua – nord-ovest dell’Uganda – una ragazzina coperta di scabbia aspetta sdraiata su un banco di cemento di essere visitata. Lì dietro, altre donne con bambini, spesso molto piccoli, attendono pazientemente il loro turno. Poco distante, un’altra donna, altissima, con un bimbo legato alla schiena e una stuoia in testa si allontana lentamente. Lei è appena stata dimessa. Le altre aspettano di essere curate. Sono tutti profughi del Sud Sudan che sono stati ricollocati in uno dei tanti settlement disseminati un po’ ovunque nel nord dell’Uganda: insediamenti di casette più o meno rudimentali, in cui sono stati accolti più di un milione di profughi sud sudanesi. E il flusso sembra non esaurirsi mai…
Sono quasi tutte donne e bambini. Lo si percepisce immediatamente al dispensario di Siripi, così come nel Centro di prima accoglienza di Imvepi, o negli insediamenti veri e propri in cui vengono ricollocati. E lo confermano anche i dati. Oggi in Uganda, l’82 per cento dei profughi sono donne e minori.
È soprattutto per loro – per queste mamme e questi bambini, ma anche per tutti coloro che continuano a essere brutalizzati dalla guerra in Sud Sudan e in Repubblica Democratica del Congo – che Papa Francesco pregherà questa sera in Vaticano. Un segno forte di vicinanza a questi due Paesi e soprattutto alle popolazioni più vulnerabili, che continuano a subire gli effetti diretti e indiretti di quelle che sono attualmente tra le situazioni di crisi più devastanti al mondo.
«In Sud Sudan non si può vivere – conferma Eva che è ricoverata nel dispensario di Siripi -. Non si sa mai cosa può succedere. La mattina c’è la pace, la sera c’è la guerra». Suo marito è stato ucciso e lei è scappata in Uganda con i sette figli suoi e i tre della sorella. Di tornare non ci pensa nemmeno. Forse un giorno… «Ma solo io. I miei figli restano qui». Eva ha conosciuto la guerra di liberazione e i fugaci momenti di esaltazione per l’indipendenza ottenuta nel 2011. Ma dal dicembre 2013, il Paese è di nuovo attraversato da un conflitto civile che ha devastato tutto quel poco che esisteva. Comprese le persone. Oggi in Sud Sudan, circa 5 milioni di abitanti soffrono la fame e 4 milioni sono stati costretti a lasciare le proprie case. Due di loro sono fuggiti oltre confine. L’Uganda ne ospita più della metà.
«Incontriamo molte donne incinte, lattanti e bambini – dice Damasco Wamboya, team leader di Cuamm-Medici con l’Africa che è opera nel Centro di prima accoglienza di Imwepi, 125 mila profughi -. Molti di loro sono malnutriti. Sempre di più la gente fugge non solo per la guerra, ma anche a causa dalla fame. Arrivano senza niente. E spesso ci sono bambini soli». Il Cuamm, in collaborazione con Unicef, è presente quotidianamente nel centro, dove offre un supporto nutrizionale immediato a mamme e bambini malnutriti e un follow up negli insediamenti. L’intervento si inserisce in un progetto più ampio di sostegno a 81 centri del distretto di Arua.
Anche nel centro sanitario Ocea II, nei pressi di un altro insediamento, il Rhino Camp (più di 100 mila profughi), la maggior parte dei pazienti sono rifugiati. Ma in questa stagione, in cui la gente del posto viene a coltivare i propri campi, ci sono anche molti ugandesi. La convivenza sembra pacifica sia nei luoghi di vita che nell’utilizzo dei servizi. I rifugiati non sono solo nei settlement: accedono alle strutture sanitarie e hanno diritto a mandare i loro figli nelle scuole ugandesi. Alla Ediofe Girls Primary School di Arua – scuola cattolica femminile fondata dai comboniani e ora gestita dalla diocesi – ci sono anche delle ragazzine sordomute provenienti dal Sud Sudan che partecipano a un programma speciale. Nessuno sembra curasi più di tanto della loro “differenza”, in quanto “straniere” e in quanto “disabili”.
È la cosa che colpisce di più al di là della grande e complessa macchina degli aiuti internazionali: la gente del posto che – per quanto povera – contribuisce, con grande semplicità e naturalezza, a farsi carico di una delle più drammatiche crisi umanitarie presenti al mondo.