A dieci anni dall’indipendenza, il più giovane Stato dell’Africa continua a essere dilaniato da conflitti e piegato da una gravissima crisi umanitaria, con una classe politica che ha tradito innanzitutto il suo stesso popolo
Un Paese con più armi che cibo. Un Paese dove metà della popolazione ha bisogno urgente di aiuti per sopravvivere e un quarto vive sfollata dalle proprie case. A dieci anni dall’indipendenza, il Sud Sudan è un Paese a pezzi. L’anelito di libertà che aveva accompagnato i lunghi anni di guerra contro il Nord (1955-2005 con un’interruzione di un decennio circa) è stato nuovamente soffocato da una spirale di violenze e conflitti sempre più inestricabile. Una guerra fratricida di tutti contro tutti – e a tutti i livelli – che fa di questo decennale un anniversario triste. L’anniversario di un tradimento.
Ad essere tradito è stato innanzitutto il popolo del Sud Sudan: i giovani di questo Paese e i loro sogni di futuro, le donne infaticabili e fiere nonostante tutto, ma anche i tanti uomini che non avevano scelto l’opzione delle armi, le famiglie rientrate dai campi profughi o i figli della diaspora tornati col desiderio di mettere a disposizione capacità, competenze ed energie e che spesso hanno trovato porte chiuse e ostilità.
Ad essere tradito è stato anche il sogno di libertà e dignità di un popolo troppo a lungo calpestato e umiliato dai “nemici” di Khartoum e che ora langue sotto il giogo dei suoi stessi leader, che si sono tolti (parzialmente) la divisa, ma hanno mantenuto la stessa mentalità militare di sempre. A cui si è aggiunta un’insaziabile sete di potere e ricchezza.
Il Sud Sudan indipendente è stato più una torta da spartire che una nazione da costruire. E invece di perseguire l’unità, si sono accentuate divisioni e rivalità, che hanno messo i vari gruppi etnici – o addirittura i diversi clan – gli uni contro gli altri, facendo precipitare quello che era già uno dei Paesi più poveri e sottosviluppati al mondo – senza strutture e infrastrutture, senza sistemi sanitari ed educativi, con un’economia fragilissima e un budget legato a doppio filo al petrolio – in un abisso di violenza e in una crisi umanitaria senza fine.
«Il Sud Sudan veniva da decenni di guerra con il Nord, preceduti da decenni di quasi abbandono da parte del potere coloniale con livelli di arretratezza delle istituzioni e di tutti i servizi difficili da sanare in pochi anni, anche nelle migliori condizioni», analizza Irene Panozzo, political advisor del rappresentante dell’Unione Europea per il Corno d’Africa, che ha vissuto per quattro anni nella capitale Juba. «Il processo che ha portato al Comprehensive Peace Agreement (Cpa), siglato a Naivasha in Kenya nel 2005, si è concentrato quasi esclusivamente sulle questioni Nord-Sud, ovvero tra Khartoum e il Sudan People’s Liberation Army (Splm). Anche per i sei anni successivi questo aspetto è stato preponderante. Molta meno attenzione da parte di tutti, anche della comunità internazionale, è stata posta alle questioni Sud-Sud, che non sono state parte del processo di Naivasha e che sono esplose all’indomani dell’indipendenza».
Eppure, molti ci avevano davvero creduto: le elezioni – le prime e uniche presidenziali – nell’aprile 2010; il referendum del gennaio 2011 con oltre il 98% di “sì“ all’indipendenza; e poi la proclamazione della Repubblica del Sud Sudan il 9 luglio, sono stati probabilmente i momenti più esaltanti della storia del Paese. Si respiravano un’energia nuova, un senso di fierezza e di dignità, un entusiasmo diffuso. «L’indipendenza è stata salutata come via per una vita migliore per il popolo del Sud Sudan, che avrebbe portato pace, libertà e opportunità durature», scrivono i membri della cosiddetta Troika (Stati Uniti, Gran Bretaglia e Norvegia) in una lettera dello scorso 5 maggio firmata insieme a Canada, Francia, Germania ed Unione Europea. Nel documento si esprime grande preoccupazione per l’attuale situazione, precipitata nel dicembre del 2013, con l’inizio di una guerra intestina che di fatto non si è ancora risolta, nonostante la firma di due trattati di pace (2015 e 2018 ad Addis Abeba) e di vari accordi e dichiarazioni.
«Negli ultimi dieci anni – si legge nella lettera -, conflitti, crisi umanitarie e instabilità hanno impedito il raggiungimento di questi importanti obiettivi. Pace duratura, stabilità e sviluppo rimangono vaghi. L’attuazione dell’accordo di pace è stata troppo lenta. Resta ancora molto da fare per garantire la piena e collegiale attuazione delle disposizioni sulla condivisione del potere e l’istituzione di strutture di governance funzionanti».
«Dal 2006, quello del presidente Salva Kiir – spiega Irene Panozzo – è stato, di fatto, un approccio da “grande tenda”, fondato cioè su un sistema di patronage; da un lato, sono stati fatti vari accordi con i leader delle milizie accompagnati da sostanziose ripartizioni dei fondi provenienti soprattutto dal petrolio; dall’altro, si è attuato un processo di assimilazione, ma mai di autentica integrazione, dei miliziani nell’esercito nazionale, che di fatto non è mai stato tale».
L’estromissione dalla carica di vice presidente di Riek Machar, leader dei nuer (tradizionalmente rivali dei dinka di Kiir, il gruppo etnico più numeroso e quello più direttamente coinvolto nel movimento di liberazione), ha scatenato un conflitto civile che è presto dilagato in diverse aree del Paese, andando ad aggravare situazioni locali di conflitto con bande armate che si alleano le une con le altre a seconda dell’opportunità.
Di fatto, oggi il Sud Sudan è un Paese fuori controllo, segnato da una grande frammentazione e da una gravissima crisi umanitaria. Si stima che sarebbero morte circa 383 mila persone e oltre quattro milioni sono attualmente sfollate all’interno del Paese o profughe nelle nazioni vicine. «Per certi versi – analizza Panozzo – si è trattato di un fenomeno tipico da fine lotta di liberazione: chi vince si sente in diritto di prendere tutto. Un atteggiamento che in qualche modo continua ancora oggi, nonostante l’impegno della comunità internazionale che – specialmente negli anni del Cpa, prima dell’indipendenza – non solo ha fornito moltissimi fondi, ma ha dato anche un enorme sostegno tecnico alla creazione delle istituzioni e degli organismi dello Stato, praticamente inesistenti, attraverso l’invio di esperti in tutti i campi: dalla legislazione al budget, dalla creazione della Banca centrale al ministero del petrolio, sino alla costituzione della polizia e di altri organismi. Forse però è mancata un po’ la visione politica affinché i sud sudanesi assumessero, loro stessi politicamente, la responsabilità di queste istituzioni. Ed è mancato un più approfondito processo di riconciliazione tra i vari gruppi».
«Mentre ci avviciniamo al decimo anniversario dell’indipendenza – scrivono i membri della Troika e dell’Ue -, è il momento giusto per tutti i leader del Sud Sudan di riunirsi per affrontare le molteplici sfide a cui devono far fronte i loro cittadini». E pur assicurando supporto politico ed economico, chiedono al governo di unità nazionale una serie di azioni urgenti. Innanzitutto, rendere effettivo il cessate-il-fuoco e mettere fine a tutte le ostilità, contrastando anche l’escalation dei conflitti locali e l’impunità. Per fare questo, tuttavia, servirebbero un vero esercito nazionale e un piano credibile di disarmo, smobilitazione e reintegrazione. Moltissimo resta da fare anche a livello politico-istituzionale per promuovere una reale collaborazione tra presidenza, consiglio dei ministri, assemblea legislativa e governi degli Stati.
Nel frattempo, è in corso un controverso processo di elaborazione della Costituzione, che dovrebbe essere accompagnato anche dal rafforzamento della commissione elettorale e da preparativi per lo svolgimento di elezioni inclusive, libere ed eque. Sul piano giudiziario, restano da mettere in piedi o da consolidare le varie istituzioni, ma resta anche da firmare il memorandum d’intesa con l’Ua per una Corte ibrida per il Sud Sudan e la creazione di una Commissione verità e riconciliazione. Infine, urgono riforme economiche radicali e una gestione responsabile e trasparente dei proventi petroliferi. Insomma, i cantieri aperti e cruciali sono ancora moltissimi. Ma quello più urgente e drammatico riguarda la situazione umanitaria che è assolutamente catastrofica. Ue e Troika chiedono misure immediate ed efficaci per proteggere gli operatori umanitari e per fornire soccorso alla popolazione in grave difficoltà. Anche l’Onu ha lanciato l’ennesimo allarme: «Il Paese sta facendo fronte al livello più alto di insicurezza alimentare e di malnutrizione mai visto dall’indipendenza».
Secondo il Programma alimentare mondiale (Pam), il periodo aprile-luglio è considerato a tutti gli effetti il più critico, con 7,7 milioni di persone bisognose di cibo. Particolarmente a rischio 1 milione 400 mila bambini e 480 mila donne in gravidanza e puerpere. «La pandemia di Coronavirus ha aggravato le vulnerabilità della popolazione e reso ancora più debole il già fragile sistema sanitario». Che, infatti, si trova in grandi difficoltà persino a distribuire i vaccini. Nelle scorse settimane, circa 60 mila dosi di AstraZeneca, donate dall’Ua, sono andate perse per i ritardi nella somministrazione.
«Quella del Sud Sudan – sostiene Panozzo – è una di quelle crisi che si protraggono da così tanto tempo da diventare difficilmente risolvibili. O da essere “scavalcate” da altre urgenze o emergenze. La situazione geopolitica della regione non gioca certo a favore di una soluzione rapida».
È d’accordo anche Paolo Impagliazzo che porta avanti, a nome della Comunità di Sant’Egidio di cui è segretario generale, i colloqui tra il governo di Juba e i due gruppi non firmatari dell’accordo di pace del 2018. «La crisi in Etiopia, la difficile situazione in Eritrea, la continua instabilità della Somalia, ma anche i problemi interni dell’Uganda… Tutto il Corno d’Africa si trova oggi in una situazione molto critica, che rende più debole anche il ruolo dell’Igad, l’Istanza intergovernativa regionale, sotto la cui egida si sono svolti i negoziati per il Sud Sudan. Noi, come Comunità di Sant’Egidio, siamo riusciti ad arrivare alla firma di due importanti documenti: la Dichiarazione di Roma e la Dichiarazione di principi, che riconoscono i gruppi non firmatari degli accordi di Addis Abeba come interlocutori politici e li includono nel meccanismo di controllo delle violazioni del cessate-il-fuoco. Ma è un processo lungo, segnato da lentezze nell’implementazione e da contrasti fra gruppi e clan. La lotta per l’indipendenza ha lasciato in eredità un’enorme quantità di armi e una violenza diffusa. Per guarire le ferite di una guerra così lunga ci vuole molto tempo».
Quali speranze dunque per il Sud Sudan? «È un Paese con enormi potenzialità, anche dal punto di vista umano – è convinto Impagliazzo -, ma c’è bisogno di una classe dirigente con senso dello Stato e del bene comune».