Sono quasi otto milioni i profughi e gli sfollati sudanesi. Un’emergenza senza fine e sempre più grave, accompagnata da gravi crimini di guerra e violazioni dei diritti umani. Ma non si intravvedono vie d’uscita al conflitto civile. Il Pime impegnato con i profughi in Ciad
Sono passati più di dieci mesi da quando in Sudan è scoppiato un terribile conflitto civile che vede opposte le forze dell’esercito regolare guidate da Abdel Fattah Abdelrahman al Burhan, generale e capo di Stato, e le Rapid Support Forces (Rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio conosciuto come Hemetti. Ancora oggi, tuttavia, dopo migliaia di morti e un numero impressionante di profughi e sfollati – quasi 8 milioni su una popolazione di circa 50 milioni -, le possibilità di una tregua sembrano ancora lontane. Il numero degli sfollati interni, in particolare, ha raggiunto livelli mai registrati: più di 6 milioni. Mentre non cessa l’esodo di moltissime persone, soprattutto donne e bambini spesso senza niente, verso i Paesi limitrofi, in particolare Egitto, Etiopia, Sud Sudan, e soprattutto il Ciad, dove anche i missionari del Pime sono impegnati nell’assistenza ai profughi in situazioni di grave emergenza umanitaria.
Tra le aree più colpite dai bombardamenti e dagli scontri, infatti, continua a esserci la regione del Darfur, al centro di molti interessi, anche per la presenza di miniere d’oro. A pagarne le conseguenze è però soprattutto la popolazione civile, che già vive in stato di estrema povertà e indigenza. La mancanza di acqua e di beni di prima necessità, le pessime condizioni igieniche e la quasi totale assenza di elettricità – oltre agli abusi e alle violenze perpetrate dai miliziani -, continuano a spingere i civili a lasciare il Paese. Nelle zone dove si sono radunati gli sfollati si riscontra un alto rischio di malattie, come il colera (i casi sono infatti raddoppiati da gennaio), che ha provocato circa 300 morti, molti dei quali bambini.
Le Nazioni Unite hanno nuovamente lanciato un appello per reperire fondi da indirizzare agli aiuti umanitari, e hanno denunciato i crimini di guerra e le violenze etniche commesse sia dall’esercito regolare che dalle Rsf. «Le violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale continuano senza sosta», ha dichiarato lo scorso 17 gennaio Radhouane Nouicer, esperto per il Sudan dell’Alto Commissario Onu per i diritti umani, e ha chiesto ai «leader delle due parti in conflitto di porre immediatamente fine alla violenza».
L’impegno del Pime in Ciad
Circa il 37% di tutti i profughi sudanesi ha trovato rifugio in Ciad, dove sono arrivate circa 550 mila persone in fuga. Il Pime, attraverso organizzazioni locali come la Caritas di Mongo, è sin dall’inizio in prima linea nell’offrire aiuti e nel realizzare interventi d’emergenza. Grazie alla presenza di fratel Fabio Mussi, responsabile dei progetti sociali, il vicariato apostolico di Mongo e la Caritas hanno contribuito al sostegno di circa 30 mila persone, suddivise in 5.800 nuclei famigliari, di cui l’85% donne e minori; il 70% sono state individuate tra le categorie più vulnerabili, come le vedove con figli a carico, gli anziani sole e i disabili.
Sono tante le storie di disperazione: «Come quella di Fatime – racconta fratel Fabio – un’adolescente che vende il tè al mercato di Métché, dove si trova il campo profughi. Ci ha spiegato di aver visto uccidere suo nonno, suo padre, e due fratelli. Lei, con sua madre e due fratelli minori, sono riusciti a nascondersi ed a fuggire in Ciad. La ragazza ci diceva: “ho solo 14 anni, ma il mio cuore è ormai vecchio perché ho visto il male che gli uomini possono fare. Ma adesso sono la sorella maggiore e devo preoccuparmi dei più piccoli”. Nei suoi occhi pieni di lacrime, da una parte c’era la disperazione e il vuoto, ma dall’altro c’era anche il coraggio di guardare avanti con forza e fiducia».
Per aiutare ragazze e donne come lei, fratel Fabio ha dato vita anche a un progetto di orticoltura coinvolgendo molte donne che così hanno la possibilità di produrre dei legumi e migliorare la dieta quotidiana delle loro famiglie e degli altri profughi. Il progetto fornisce alle donne tutta l’attrezzatura necessaria per lavorare, le assiste e dà loro coraggio per andare avanti nonostante le condizioni di assoluta precarietà.
«Davanti a queste situazioni ci si può commuovere o restare indifferenti – scrive fratel Mussi -. Siamo perfettamente coscienti che quello che facciamo è una piccola cosa. Ma è una cosa importante per queste donne che hanno perso parte della famiglia e tutto quello che avevano. E non hanno altra risorsa che le loro mani».
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