A Saint-Louis, un’organizzazione locale si occupa dei piccoli studenti delle scuole coraniche, costretti a mendicare. Anche collaborando con i “marabout”. Perché tradizione e diritti possono convivere
La scritta sull’edificio in stile coloniale, sopra i cancelli in ferro sbarrati, ormai si legge a stento: Gare de Saint-Louis, stazione di Saint-Louis. La vecchia ferrovia, che collegava la città del Nord del Senegal alla capitale Dakar, oggi è in disuso e davanti all’edificio abbandonato si tiene il mercato. Tra i banchi le voci squillanti dei venditori si intrecciano con quelle delle donne dai vestiti multicolori, arrivate per comprare pesce fresco, verdure o carne. Nella confusione della mattina, pochi sembrano far caso ai bambini vestiti con una semplice maglietta e dei calzoncini, in una mano un sacchetto con riso o zollette di zucchero, nell’altra un piccolo contenitore di latta con cui chiedono l’elemosina.
Sono i piccoli studenti – talibé – delle scuole coraniche senegalesi, le daara. Le famiglie li hanno mandati in città dai loro villaggi, spesso lontani centinaia di chilometri, perché seguano le lezioni di un marabout, un maestro, e imparino a recitare e interpretare il libro sacro islamico. Una tradizione radicata in Senegal, che però spesso diventa anche una questione sociale, per i problemi legati alla condizione di mendicanti e alla minore età: gli allievi più piccoli, infatti, hanno appena cinque o sei anni. «È una situazione difficile. Solo a Saint-Louis si stima che ci siano quindicimila talibé», spiega Issa Kouyate, attivista che si occupa di migliorare le condizioni di vita di questi bambini e ragazzi. Negli anni, inoltre, molte daara sono diventate sinonimo di abusi: sono frequenti, ad esempio, i casi di studenti picchiati dai loro maestri per non aver versato il denaro necessario al proprio mantenimento, che devono procurarsi appunto attraverso l’elemosina. Altre volte, la mendicità è utilizzata come espediente per arricchirsi dallo stesso marabout, che trascura l’insegnamento e lascia i suoi allievi in strada anche per dodici ore consecutive, invece che negli intervalli tra una lezione e l’altra. E anche le condizioni igieniche e sanitarie delle scuole, spesso, lasciano a desiderare.
Proprio per rispondere a questa situazione Kouyate, insieme ad altri giovani del posto, ha fondato otto anni fa la Maison de la Gare. Questo centro d’accoglienza poco distante dalla vecchia stazione è diventato in breve un punto di riferimento per i talibé della città. Basta superarne l’ingresso per accorgersene. Nel cortile, un bambino lava col sapone, in una piccola vasca, la maglietta impolverata che indossava fino a qualche momento prima. Altri ragazzi rincorrono un pallone. I più grandi hanno, forse, quindici anni. Tra loro ci sono Issa Baldé e il suo amico Cheikh: a Saint-Louis sono arrivati insieme, nel 2005, dallo stesso villaggio nella regione di Fouta. Il marabout a cui sono affidati era un conoscente delle loro famiglie: «È un bravo maestro», dicono entrambi. In effetti le condizioni della scuola coranica che frequentano sembrano migliori di tante altre. Esiste una quota fissa da pagare, 250 franchi Cfa al giorno (circa quaranta centesimi di euro), ma il maestro accetta anche cifre minori e non crea problemi se, per caso, un giorno, il versamento salta del tutto.
In questo modo, Issa e Cheikh riescono a mettere da parte anche piccole somme da inviare al villaggio d’origine. Lo stesso fanno molti altri talibé, compresi quelli che arrivano dai Paesi vicini come Gambia, Guinea Conakry e Guinea Bissau. Queste “rimesse” sono spesso uno dei motivi per cui le famiglie decidono di far seguire ai bambini la strada degli studi coranici. Anche in casi come quelli di Issa e Cheikh, però, la vita dei garibu (altro nome con cui sono conosciuti i piccoli scolari-mendicanti) può non essere facile. I due ragazzi del Fouta, ad esempio, per procurarsi il denaro non mendicano, ma aiutano a scaricare i camion che portano a Saint-Louis i prodotti da vendere sul mercato. Le cinque persone che compongono una squadra di lavoranti possono dover scaricare cinquecento o persino mille tra cassette e ceste ogni giorno. E la paga non sempre arriva. «Il rischio costante che vivono i talibé è di essere sfruttati dalla società, non solo dai maestri coranici – commenta Issa Kouyate -. Ecco perché, anche solo restando a guardare senza fare nulla, siamo complici di questo sfruttamento».
I fondatori della Maison de la Gare, dunque, non si sono accon tentati di creare un punto di ritrovo, dove è possibile fare il bucato, lavarsi o condividere un pasto a base di riso e pollo dalla zuppiera comune. Anche grazie ai fondi di agenzie internazionali per la cooperazione come quella canadese e quella statunitense, sono stati costruiti un’infermeria, un dormitorio e delle aule scolastiche. Due infermiere dell’ospedale cittadino si alternano, nelle ore libere, per medicare piccole ferite o somministrare medicine per le malattie più comuni, come la scabbia. Alcuni volontari, a volte loro stessi ex talibé, si occupano di preparare l’accoglienza di chi, per sfuggire agli abusi, decide di abbandonare la daara o viene trovato a dormire in strada. Altri tengono corsi di base di matematica, francese o inglese, indispensabili a bambini che spesso parlano solo lingue locali come il wolof.
Chi raggiunge un livello adeguato viene poi trasferito alla scuola statale, ma può sempre contare sul sostegno del personale del centro. È il caso di Harouna, che dopo aver scritto un breve testo sulla vita quotidiana nel suo villaggio, ascolta pazientemente le correzioni della giovane volontaria che controlla l’ortografia e la grammatica del compito.
Per i più grandi, invece, la priorità è quella del reinserimento sociale. Può accadere, infatti, che nelle daara si trovino anche ragazzi che hanno superato i vent’anni e che il marabout tiene al suo servizio anche dopo la conclusione formale degli studi coranici. Altri, invece, una volta conclusa la scuola, non hanno una vera alternativa alla vita in strada.
«A volte è successo che gruppi di ex talibé si siano scontrati o abbiano rubato nel mercato, finendo in prigione – racconta Kouyate -. Quando escono non hanno una prospettiva e si danno al crimine o alla droga».
L’alternativa proposta dalla Maison de la Gare è l’apprendimento di un mestiere. Dagli edifici dipinti in colori pastello del centro, sono usciti barbieri, falegnami, meccanici, parrucchieri e anche agricoltori, che imparano a lavorare la terra in un campo poco distante dalla città. Sono gli stessi ragazzi che, dopo aver incontrato i volontari, suggeriscono l’attività nella quale vorrebbero impegnarsi. Perché costruire insieme un percorso è parte integrante della filosofia della Maison. Lo stesso vale per il rapporto con le autorità e la società di Saint-Louis in generale. I casi dei bambini fuggiti dalle scuole coraniche e che vorrebbero ricongiungersi con la famiglia sono affrontati insieme al tribunale locale, che, con altri organismi, partecipa anche a periodiche campagne di formazione per i diritti del bambino. Queste sono destinate in particolare ai maestri coranici: chi si batte contro la mendicità, infatti, sa perfettamente che, senza il loro contributo, ogni sforzo potrebbe risultare inutile.
«Con i marabout che sanno cosa significa davvero l’elemosina, insegnano la virtù dell’umiltà e fanno conoscere veramente il Corano, noi lavoriamo e li aiutiamo a offrire ai loro allievi condizioni di vita migliori», chiarisce Kouyate.
Il contatto tra questi religiosi e gli operatori del centro è costante: con loro si è realizzato il censimento degli studenti coranici della città, essenziale per poter gestire il fenomeno. Allo stesso modo, viene discussa insieme la possibilità di dare agli alunni più promettenti un’istruzione formale o di avviarli al lavoro. Uno spirito di collaborazione che mostra come tradizione e diritti possano convivere in una società – come quella senegalese – che ha nell’islam e nelle sue pratiche uno dei pilastri fondamentali.