Il nuovo capo dello Stato, John Magufuli, ha stupito la stampa internazionale con le sue misure contro gli sprechi: una lezione appresa dal fondatore dello Stato, di cui è in corso la causa di beatificazione.
Quando a luglio scorso era stato scelto come candidato presidenziale del partito di governo in Tanzania, il Chama Cha Mapinduzi, John Magufuli era una figura poco conosciuta anche per gli standard dei politici africani. L’allora ministro dei Lavori pubblici non partiva neanche favorito per la nomination, ma meno di sei mesi dopo, vinte le primarie e le elezioni, il neopresidente si trova ad essere uno dei personaggi più citati dalla stampa continentale. Una fama improvvisa dovuta ai provvedimenti messi in atto ancor prima di formare la squadra di governo.
La priorità di Magufuli per il Paese, recentemente coinvolto in scandali di corruzione, è stata quella di tagliare le spese superflue. Stop alle celebrazioni dei singoli deputati per la loro elezione, alle missioni all’estero non essenziali e ai viaggi in prima classe, se non per le prime tre cariche dello stato. I fondi risparmiati, ha poi annunciato, sarebbero stati destinati all’acquisto di attrezzature per gli ospedali e in lavori di pulizia delle strade del paese, da tenersi al posto dei festeggiamenti per l’indipendenza. Un compito che Magufuli ha condiviso con i suoi cittadini, meravigliando un gruppo di pescatori della capitale economica Dar Es Salaam: la mattina del 9 dicembre hanno infatti visto il presidente affiancarli nel liberare un mercato cittadino dall’immondizia.
Le scelte del nuovo capo di Stato hanno incuriosito molti, anche in Occidente, senza però meravigliare chi conosce la storia della Tanzania. L’editorialista nigeriano Alkasim Abdulkadir, ad esempio, ha tracciato per la testata Naji un parallelo tra la figura di Magufuli e quella del fondatore della nazione tanzaniana e suo primo presidente, Julius Nyerere. I gesti di Magufuli e anche i discorsi con cui, fin da prima dell’elezione, ha invitato i concittadini a non cedere alla “politica della divisione” su base etnica o religiosa, si rifanno in effetti a un concetto introdotto nella politica locale proprio da Nyerere: ujamaa, che in lingua swahili indica la comunità familiare e la collaborazione tra i suoi componenti.
Nella visione del primo presidente, cattolico e fautore di un “socialismo africano”, l’ujamaa sarebbe dovuto diventare il sistema economico del nuovo Stato. Il tentativo fallì ma creò un senso di unione tra le oltre 100 etnie del paese e una pace interna, mai scalfita da un golpe o una guerra civile, con pochi uguali nel continente, al punto che di Nyerere è stata avviata la causa di beatificazione.
Quello del fondatore dello Stato era un cattolicesimo dal profilo sociale marcato: “Misurare la ricchezza di un paese dal prodotto interno lordo è misurare le cose, non le realizzazioni”, disse ad esempio in un discorso pubblico del 1973. La stessa filosofia applicava alla sua vita privata, abitando in una semplice villetta e usando un’auto ordinaria. Gesti che il suo attuale successore – a sua volta cattolico – ha mostrato di voler imitare, ma che sono solo l’inizio di una risposta alla vera sfida: “dare vita – come ha scritto il settimanale The East African – a riforme sostenibili, che riportino il Paese sul sentiero della frugalità e dell’onestà”.