Non solo Boko Haram o Shabaab. Nel cuore della Repubblica Democratica del Congo c’è un altro gruppo islamista che oggi semina morte e terrore
Una madre di 11 figli, uccisa e decapitata mentre rientrava a casa dai campi. Una coppia, con sette figli, massacrata barbaramente. Altri quattro contadini assassinati all’arma bianca nei giorni scorsi. Ma anche bambini rapiti o attratti con l’inganno, segregati in campi di indottrinamento e addestramento. E ragazzine ridotte a schiave sessuali.
È la nuova frontiera del terrorismo islamista. Non in Medio Oriente, ma nel cuore della Repubblica Democratica del Congo. È qui, nella zona di Beni (Nord Kivu), ai piedi dell’imponente massiccio del Ruwenzori, che si sono moltiplicati gli attacchi di un gruppo di ribelli che nel tempo ha assunto sempre di più una connotazione jihadista. E che nell’ultimo anno ha provocato centinaia di vittime, costretto alla fuga circa 70 mila persone e seminato ovunque insicurezza e terrore. Oltre a rapire a scopo di estorsione o reclutamento forzato un migliaio di adulti e bambini, tra cui tre padri assunzionisti sequestrati nell’ottobre 2012. Nell’agosto del 2014, si era diffusa la notizia che i tre religiosi erano stati uccisi, perché si erano rifiutati di convertirsi all’islam. Notizia smentita dalla diocesi di Butembo-Beni. I vescovi dell’Assemblea episcopale provinciale di Bukavu hanno invece confermato il tentativo di rapire il vescovo di Kasongo Placide Lubamba, lo scorso 12 maggio.
Responsabili di questa strategia del terrore sarebbero le Alliance of Democratic Forces- National Army for the Liberation of Uganda (Forze democratiche alleate-Esercito nazionale per la liberazione dell’Uganda, Adf-Nalu) un gruppo armato di origine ugandese, che si opponeva al presidente Yoweri Museveni, al potere dal 1986.
Sostenuto per un certo tempo dal Sudan, il gruppo è stato guidato dal 2007 da Jamil Mukulu, un cristiano convertito alla setta islamica tabliq. Arrestato lo scorso maggio in Tanzania, Mukulu è stato estradato in Uganda, nonostante le proteste dei difensori dei diritti umani congolesi, e in particolare del Centre d’étude pour la promotion de la paix, la démocratie et les droits de l’homme (Cepadho), che chiedeva che venisse giudicato nel loro Paese per i crimini commessi nella zona di Beni.
Sotto la guida di Mukulu, il gruppo si è radicalizzato, diventando non solo un incubo per gli abitanti di questa regione orientale della Repubblica Democratica del Congo, ma offrendo le basi per l’addestramento di miliziani provenienti da altri Paesi. Già in passato, sarebbe stata riscontrata la presenza di mercenari somali, anche se l’ipotesi di una collaborazione diretta con gli Shaabab è tutta da verificare. Secondo l’International Crisis Group, l’Afd-Nalu è il solo gruppo armato congolese «a essere considerato come un’organizzazione terroristica appartenente alla nebulosa islamista in Africa dell’Est». Gli Stati Uniti lo avevano inserito nella lista nera delle organizzazioni terroristiche già nel 2001.
Secondo padre Loris Cattani, missionario saveriano, grande conoscitore di questa regione e responsabile di Congo Attualità, «sia la società civile che i vescovi cattolici del Kivu, come pure un gruppo di parlamentari, hanno esplicitamente denunciato l’esistenza di campi di formazione islamica e di addestramento militare in cui transitano giovani ugandesi, keniani, somali, tanzaniani, ruandesi, sudanesi, burundesi, centroafricani e congolesi, reclutati mediante promesse di lavoro o di borse di studio all’estero e che poi tornerebbero a combattere o a organizzare attentati nei loro Paesi».
Nel frattempo, però, il gruppo ha intensificato le azioni di destabilizzazione nella regione di Beni, dove si finanzia grazie al trasporto illegale transfrontaliero di legname pregiato e oro, oltre che attraverso finanziamenti che vengono dall’estero (soprattutto Inghilterra, Kenya e Uganda). Ma lo sfruttamento più sistematico e lucrativo di queste e di altre risorse sarebbe un altro degli obiettivi dell’Adf- Nalu, che ormai la società civile locale chiama Muslim Defense International (Mdi). Per questa ragione, il gruppo perseguirebbe con tanta macabra costanza – e quasi senza alcuna resistenza né delle Forze armate congolesi né della Missione Onu per il Congo (Monusco) – nel processo di epurazione delle popolazioni locali. Lo spopolamento di queste aree sarebbe funzionale anche alla creazione di altri campi di addestramento e indottrinamento, che potrebbero di intensificare ulteriormente la presenza jihadista nel cuore dell’Africa.
Almeno tre sarebbero già stati individuati tra le montagne del Ruwenzori, mentre uno sarebbe a Medina, 80 chilometri circa dalla città di Beni, una delle zone più colpite dagli attacchi.
Lo denunciano anche i vescovi della provincia ecclesiastica di Bukavu, evidenziando in particolare il dramma dei bambini «attirati dalla promessa di sfuggire alla povertà. Alcuni sono orfani, ma altri hanno lasciato le loro famiglie dopo essere stati ingannati da alcuni reclutatori che avevano fatto loro balenare la speranza di poter studiane in Medio Oriente, in Europa o in Canada. Quanto alle bambine, sono costrette al matrimonio o trattate come schiave sessuali».
La situazione di insicurezza avrebbe inoltre provocato la chiusura di alcuni centri sanitari e renderebbe difficile l’approvvigionamento di medicinali da parte di altri. È questa una delle tante denunce fatte dal Cepadho, una delle poche voci locali che testimoniano dei massacri e delle condizioni di vita sempre più precarie delle popolazioni di questa zona.