Il film documentario “Quattro figlie” della regista Kaouther Ben Hania racconta la storia vera di Olfa e delle figlie, due delle quali “sedotte” dal credo integralista. Dal 27 giugno nelle sale italiane
Che cosa passa per la testa di un’adolescente che decide di diventare sposa di un combattente dell’Isis? Perché una ragazzina che conduce una vita libera giunge a desiderare di essere sottomessa e di seguire i dettami di una religione nella sua interpretazione più fanatica ed estremista? Stavolta a cercare di dare una risposta non è uno sguardo occidentale, ma quello di una donna che proviene dal mondo islamico. Kaouther Ben Hania, 46 anni, è una regista e sceneggiatrice tunisina. Con “Quattro figlie”, un’opera in bilico fra il documentario e la fiction, ha vinto un premio a Cannes nel 2023. È un lungometraggio fuori dagli schemi, difficile da classificare, dove l’autrice ci porta dentro la vita di una donna, Olfa Hamrouni e delle sue figlie. Eya e Tayssir Chikhaoui vivono con lei, ma su di loro pesa come un macigno l’assenza di Ghofrane e Rahma, le due più grandi, che nel 2016 sono diventate spose dell’Isis.
Come tanti tunisini, Ben Hania ha scoperto l’esistenza di Olfa e delle sue figlie ascoltando un’intervista radiofonica. La donna aveva suscitato un certo clamore mediatico, finendo in televisione e sui giornali. Chiedeva l’appoggio delle autorità tunisine per riportare a casa le sue figlie, finite in prigione in Libia. Era il 2016. La regista si arrovella: come raccontare questa storia vera, cercando di far emergere in modo autentico i sentimenti, il dolore, il disagio di una famiglia vittima di un simile dramma? A furia di essere intervistata, Olfa ormai si era creata un personaggio: la madre in lutto. Al di là della sofferenza, sicuramente autentica, in lei Ben Hania coglie una personalità complessa, quella di una donna energica e forte, che rischia di scomparire in una narrazione monocorde. Si inventa così un escamotage: la realizzazione di un documentario, in cui Olfa e le due figlie minori sarebbero state affiancate da tre attrici professioniste, due nel ruolo delle sorelle perdute e una nella parte della stessa Olfa, per le scene più difficili. All’inizio si fa un po’ di fatica a entrare nello spirito un po’ pretestuoso del documentario, ma presto si viene catturati da questa storia.
“Quattro figlie” scava nel contesto sociale e umano e nei drammi familiari che possono portare a scelte estreme. Olfa, 45 anni, è figlia di una donna abbandonata dal marito, con dei figli da crescere. Nel mondo islamico, ritrovarsi sole senza la protezione maschile è una maledizione. Basta un passo sbagliato perché la donna venga considerata una poco di buono, finendo preda di uomini senza scrupoli. Olfa da ragazzina era consapevole di questa situazione. A 14 anni, si taglia i capelli, si allena con i pesi e diventa in qualche modo il maschio della famiglia, pronta a difendere la madre e i fratelli. Ma con il passare del tempo pure lei deve trovarsi un marito. L’uomo che le viene assegnato dalla famiglia è una nullità. La prima notte di nozze cerca di violentarla e Olfa reagisce. Lo riempie di pugni e strofina il lenzuolo sul naso di lui insanguinato per inscenare la perdita della verginità, testimoniata dal tessuto macchiato dato alle donne che attendono all’estero che le nozze siano “consumate”.
La situazione non migliora con il passare del tempo: Olfa si ritrova al suo fianco un uomo insensibile, che compie il suo dovere di marito solo per procreare. Nel 1998 nasce Ghofrane, l’anno successivo Rahma, poi nel 2003 e nel 2005 è la volta di Eya e Tayssir. Di fronte a un marito che si comporta anche da padre-padrone, che ha scarsa considerazione delle sue stesse figlie, Olfa reagisce nell’unico modo che conosce: diventa una madre manesca, picchia le bambine, ma nello stesso tempo sogna per loro un futuro migliore del suo. È ossessionata dall’idea che possano diventare delle ragazze facili. Ogni manifestazione che abbia che vedere con il corpo e la sessualità viene stroncata, perché «i corpi femminili sono pericolosi». Sono gli anni del governo di Ben Alì, in cui indossare il velo era un atto di resistenza contro le autorità. Il modello femminile, ispirato all’Occidente, propugnava una donna moderna, non più piegata ai dettami religiosi. Le ragazze di Olfa partecipano al cambiamento facendo le majorette.
Anche Olfa finisce per sollevare la testa. Non tollera più il marito, scappa dalla sorella con le figlie e chiede il divorzio. Incontra un uomo, si innamora e decide che è giunta l’ora di avere dalla vita la sua parte di felicità. Peccato che il suo innamorato, un assassino fuggito di galera, dopo una prima fase di gentilezza mostra il suo vero volto di delinquente e tossicodipendente, che allunga le mani sulle ragazze nel frattempo cresciute. È in questo contesto che Ghofrane e Rahma entrano nell’adolescenza. L’aria sta cambiando: la Rivoluzione dei Gelsomini, tra il 2010 e 2011, fa emergere il movimento islamista. All’inizio, nel racconto che Eya e Tayssir fanno delle loro sorelle maggiori, la cosa non sembra avere alcuna presa su di loro. Anzi, Rahma in quel periodo della sua vita è dark e si veste con magliette che inneggiano a Satana. Poi, i giovani islamisti la avvicinano, convincendola a portare il velo nero integrale. Quello che a Rahma e a Ghofrane all’inizio pare solo un gioco si tramuta in una scelta di vita. Il gruppo islamista esalta questa loro nuova femminilità. «Sorella, sei bellissima!» è il complimento rivolto alle ragazze velate. Per due adolescenti in rotta con la madre, prive di una figura paterna di riferimento e già messe a dura prova dalla vita, il mondo di Daesh è un rifugio in cui si sentono accettate e valorizzate, con un sistema di valori da abbracciare per sentirsi parte di una comunità. Rahma e Ghofrane si ribellano a Olfa, la criticano perché lavora e la definiscono una “donna dissoluta”. La madre, abituata a comandare a bacchetta le figlie, stavolta si scontra contro un nemico più grande di lei. Non c’è modo di farle ragionare. Ricorre persino alla polizia, che è impotente. E quando decide di portare le quattro ragazze con sé in Libia, dove lavora come donna delle pulizie, le due figlie maggiori fuggono per raggiungere i Fratelli Musulmani a Sabrata. Ghofrane ha 16 anni, Rahma 15. La maggiore sposerà Noureddine Chouchane, un capo dell’Isis ritenuto la mente degli attacchi ai turisti in Tunisia nel 2015.
Olfa è terrorizzata: teme che anche le piccole Eya e Tayssir possano essere rapite dalle sorelle, e le affida temporaneamente a un centro per minorenni, dove con l’aiuto degli psicologi riusciranno a elaborare i traumi subiti. Il legame spezzato con le sorelle maggiori rappresenta una ferita importante che riemerge durante i loro racconti inclusi nel documentario. Nel frattempo, la madre si mobilita per avere il sostegno dello Stato tunisino. E quando il campo dei miliziani a Sabrata viene bombardato dagli Usa, Noureddine muore, ma le due ragazze si salvano. Per loro, una volta catturate, si aprono le porte della prigione, secondo un copione già visto anche in occasione della caduta dell’Isis in Siria. In galera finirà anche la piccola Fatma, figlia di Ghofrane, vittima innocente delle scelte dei suoi genitori.
Dopo aver visto “Quattro figlie”, viene spontaneo chiedersi quanto un contesto familiare difficile – segnato dalla povertà e dalla presenza di una madre che adora le figlie ma riesce a esternare nei loro confronti solo la violenza che lei stessa ha subìto – sia determinante nel processo di radicalizzazione delle due adolescenti Ghofrane e Rahma. Olfa è in qualche modo “colpevole” per la loro scelta? Chi scrive è convinto del contrario: la donna ha fatto tutto ciò che le era possibile, condensando in sé la figura di madre e di padre. L’adolescenza è un momento complicato, in cui si è alla ricerca di una propria identità e nella confusione che comporta si può facilmente finire preda di chi promette un ruolo importante, di chi seduce una giovane mente, maschile o femminile, facendola sentire un “eletto di Dio”, “un martire prescelto”, come avviene in un certo islam radicale. Per Ghofrane e Rahma, la presenza di figure maschili abusanti – il padre, l’amante della madre – può anche aver contribuito a spingerle verso un rapporto con l’altro sesso rigidamente regolamentato dalla religione, quindi con minori rischi. Sicuramente un contesto familiare più all’insegna dell’amore può proteggere da scelte estreme, ma come molte storie di aspiranti jihadisti negli anni ci hanno mostrato non rappresenta una garanzia assoluta.