Dopo la caduta del regime di Ben Ali, le speranze erano tante. Ma oggi la disoccupazione cresce e il Paese appare spaccato tra i sostenitori del governo islamico e le opposizioni, che temono derive estremiste
Lungo Avenue Habib Bourguiba, nel cuore della Ville Nouvelle, i blindati dell’esercito sono appostati giorno e notte e il filo spinato protegge gli edifici più strategici, come il ministero dell’Interno o l’ambasciata di Francia, poche centinaia di metri più avanti. Chi si avvicina troppo o viene notato a scattare foto alla famosa piazza dell’orologio, oggi rinominata “14 gennaio 2011” in memoria della rivoluzione, viene richiamato dai poliziotti in assetto da guerra. Non c’è aria di primavera, a Tunisi. E non solo a causa della stagione, particolarmente rigida. Il viale diventato famoso per le manifestazioni che, due anni fa, portarono alla caduta del regime del dittatore Ben Ali oggi è mesto. I tunisini a spasso per lo “struscio” tra i negozi di abbigliamento e le profumerie eleganti sono scomparsi, i caffè sono poco animati e si svuotano presto alla sera. Soprattutto, si respira la tensione. La si respira attorno al presidio di Amnesty International, che negli ultimi mesi ha più volte denunciato violazioni dei diritti umani e minacce alla libertà di espressione, o costeggiando l’esposizione allestita nel centro della città in memoria di Farhat Hached, esponente del Movimento nazionale tunisino e fondatore negli anni Quaranta del sindacato Ugtt, finito oggi nell’occhio del ciclone per le sue critiche al governo dominato dal partito di matrice islamica Ennahdha. La formazione guidata da Rached Ghannouchi, per la verità, è messa sotto accusa da tanti fronti: per l’inconcludenza delle sue politiche – la disoccupazione continua a crescere e la povertà è tangibile, non solo nel Sud del Paese -, ma anche per i giochi di potere e soprattutto per l’eccessiva tolleranza nei confronti degli estremisti religiosi salafiti.Eppure, come dimostra l’ennesima manifestazione di islamisti che sfilano urlando slogan contro “la corruzione del vecchio sistema” e a supporto della “nuova Tunisia musulmana”, il Paese è diviso in due.
«Questo governo ha cominciato da subito a fomentare una separazione tra i “buoni musulmani” e i laici, che vengono semplicemente tacciati come atei», esordisce osservando con aria incredula i manifestanti Lina Ben Mhenni, la blogger più famosa della primavera araba. «Se combatti per mantenere la laicità dello Stato, allora per loro non sei una musulmana. E quest’ambiguità è facile da coltivare qui in Tunisia, dove due dittatori come Bourguiba e Ben Ali hanno sostenuto il secolarismo: così, se qualcuno osa criticare il governo subito viene accusato di essere anti-islamico, un “residuo del vecchio regime corrotto”. In questo modo, proprio in nome della tutela della rivoluzione, cercano di creare un nuovo regime: siamo stati scippati della nostra rivoluzione!».La denuncia della “tunisian girl” (così si chiama il suo blog), candidata al Nobel per la pace e pluri-decorata per il suo coraggio, è chiara. E la ventinovenne, che insegna linguistica all’università di Tunisi, ne paga le conseguenze. «Ricevo minacce di continuo, contro di me è stata montata una campagna diffamatoria violenta». Due volte è stata brutalmente picchiata e molestata dalla polizia. «E ho paura anche della milizia di Ennahda», confessa, alludendo alla famigerata “Ligue de protection de la revolution”, assoldata dal partito di governo con il pretesto appunto di difendere la rivoluzione ma in realtà al servizio della causa dell’attuale potere, e nota per la sua violenza. I metodi dei tempi del regime, purtroppo, non sono cambiati. E le donne sono le prime vittime. Lina cita il raccapricciante episodio della giovane stuprata a settembre da due agenti che poi la accusarono per atti osceni (infine assolta per mancanza di prove, dopo una mobilitazione massiccia dell’opinione pubblica). «Noi donne siamo state da subito un bersaglio facile: ci dicono che dobbiamo tornare a chiuderci in casa, così si risolverebbe anche il problema della disoccupazione degli uomini!». Al di là del rischio di un rigurgito patriarcale, che in questo caso ha del grottesco, la posta in gioco è alta: «Se ai tempi di Ben Ali le femministe lottavano per ottenere nuovi spazi, noi siamo costrette a farlo per difendere le conquiste del passato. Recentemente siamo dovute scendere in piazza perché dalla bozza della nuova Costituzione fosse ritirato il riferimento alla “complementarietà” tra uomo e donna, che aveva sostituito l’espressione “parità”. Ma a rischio è anche il Codice di statuto personale, all’avanguardia sui diritti femminili, mentre si ipotizza di legalizzare la poligamia ed esponenti sauditi vengono invitati a parlare delle mutilazioni genitali per le bambine…».Chi sperava che, con la caduta del vecchio regime, la libertà di espressione sarebbe stata finalmente garantita, oggi è deluso. Dopo un breve periodo di apertura, i tentacoli del nuovo potere si sono allungati sui media (“riciclando” anche giornalisti ex fedeli di Ben Ali…), mentre le tv private sono finanziate dai partiti politici e i cyber-attivisti ormai tendono ad autocensurarsi, per timore delle ritorsioni. Tuttavia, se da una parte anche gli artisti denunciano il rischio di censura e di un nuovo clima di intolleranza, Tunisi resta una città dove il pluralismo non è stato spento del tutto, anche se spesso assume più i toni di una dialettica feroce. A dicembre, il cinema Amilcar ha proiettato per alcuni giorni il documentario della regista Hinde Boujemaa Ya Man Aach (“Era meglio domani”, presentato all’ultima mostra del cinema di Venezia), una denuncia impietosa della corruzione che ancora immobilizza il Paese e della disillusione di un popolo che, dopo le speranze della rivoluzione, si ritrova ostaggio della povertà.
La situazione economica, in Tunisia, sta peggiorando. Il turismo risente dell’incertezza del momento e degli attacchi fisici compiuti da gruppi di estremisti salafiti contro hotel, resort e locali considerati immorali. Il clima generale non incoraggia certo gli investitori stranieri, la disoccupazione cresce e con essa l’esasperazione della gente, che di tanto in tanto sfocia in manifestazioni di piazza soprattutto nelle città del Sud, particolarmente toccate dalla crisi. Quanto alle minoranze religiose, all’apprensione legata alla congiuntura economica si somma quella relativa agli spazi di tolleranza che verranno garantiti nella nuova Tunisia, mentre la commissione costituente sta lavorando, tra polemiche e strappi, alla bozza della Carta fondamentale.«Nella cultura tunisina c’è apertura sulla libertà di coscienza: durante l’incontro organizzato dalla Fondazione Oasis a giugno 2012 proprio qui a Tunisi lo stesso presidente Marzouki ha affermato che la cittadinanza non deve essere legata alla religione». Appare speranzoso padre Nicholas Lhernould, vicario generale dell’arcidiocesi. Lo incontro alla parrocchia S.te Jeanne D’Arc, dove al sabato sera celebra la Messa per la piccola comunità italiana: soprattutto famiglie che vivono qui qualche anno per motivi professionali. «I cristiani nel Paese sono una piccola minoranza, circa 25-30 mila persone su dieci milioni di abitanti, praticamente tutti stranieri, di oltre settanta nazionalità», premette il sacerdote francese, 37 anni di cui diciotto vissuti in Tunisia. «I nostri laici sono costituiti da una comunità storica,nata qui, a cui si aggiungono altre tipologie di fedeli: donne che hanno sposato dei tunisini, africani subsahariani che sono qui per studio o per lavoro, dipendenti di aziende con filiali in Tunisia e diplomatici. A questi, oggi dovremmo sommare i pensionati europei che trascorrono qui una parte dell’anno: un segno che la vita nel Vecchio Continente è diventata più difficile». La conversione al cristianesimo non è proibita dalla legge, ma la Chiesa evita il proselitismo diretto: «Noi cerchiamo di testimoniare Cristo con la nostra vita, attraverso le nove scuole che gestiamo, frequentate da migliaia di ragazzi musulmani, o con le nostre istituzioni culturali come le biblioteche e i centri studi, ma anche attraverso l’impegno sociale a servizio dei più deboli, dai disabili ai migranti ai carcerati». Le suore sono in prima linea, spesso nei contesti più delicati. Come la veneta suor Chiara Durello, religiosa della Congregazione di San Giuseppe dell’Apparizione, che si occupa dei bambini abbandonati. «Collaboro con un ente statale che accoglie madri single e si prende cura dei loro piccoli nei casi in cui le donne non li possano tenere con sé», spiega suor Chiara, a Tunisi da otto anni dopo 25 trascorsi in Mauritania. «A volte le mamme sono troppo povere, ma spesso sono anche rifiutate dalla famiglia e dal padre del bambino». E sul fronte del dialogo interreligioso, com’è la situazione? Padre Nicholas sorride: «È il nostro pane quotidiano», spiega. «E non tanto al livello formale dei vertici, che pure esiste, ma soprattutto nell’incontro e nel confronto della vita, che condividiamo in tutto con gli autoctoni. In questi mesi, molti amici tunisini mi hanno spiegato come la presenza di noi cristiani sia importante per tenere alta l’attenzione sull’inclusione della differenza nel progetto della nuova Tunisia».
La cattedrale Saint Vincent de Paul, che campeggia imponente su place de l’Indépendence di fronte al monumento del grande storico Ibn Khaldun, resta un simbolo. Di presenza, di convivenza. All’orario della Messa vespertina, il cancello davanti all’ingresso rimane barricato, la cattedrale sembra chiusa. Salvo poi notare un piccolo avviso che precisa: ingresso laterale, su rue d’Alger. Allora si cammina ancora un po’, costeggiando alcuni negozi, finché si raggiunge la piccola traversa, si arriva a un altro cancello e si entra in un cortile. Qui, una porta di servizio permette alla fine di entrare in chiesa attraverso la sacrestia. La grande cattedrale gotica-bizantina è buia, ma in una cappella laterale la luce è accesa. Una ventina di fedeli sta intonando in francese il canto d’ingresso: ci sono giovani africani e qualche europeo, suore sudamericane ed egiziane. Un piccolo mondo che sembra scomparire tra le dinamiche di un post-rivoluzione difficile e pieno di incognite. «Ma noi siamo qui e viviamo questo momento insieme al popolo tunisino», raccontano sorridendo le giovani suore del Verbo incarnato, una congregazione argentina che da qualche anno ha aperto due comunità a Tunisi. Poi spengono le luci della cappella e si affrettano: «Questa è la sera della pizza», spiega suor Maria Rosario. «Condividiamo la cena con gli studenti africani che non hanno nessuno». Nessuno tranne sei suore che sono venute da un altro continente, portando con sé la follia e l’entusiasmo del Vangelo.