È deceduto questa notte, nella casa del Pime di Rancio di Lecco, padre Roberto Donghi, missionario del Pime che ha vissuto a lungo in Guinea Bissau. Avrebbe compiuto 49 anni tra qualche giorno. Lo avevamo incontrato poche settimane fa e ci aveva raccontato della sua missione africana, dei legami che continuava a mantenere vivi con la sua gente di Catió e delle isole Bijagos, del suo desiderio di continuare a essere utile pure da qui. E anche della fatica di confrontarsi con il mistero della malattia… Ecco quello che aveva condiviso con la nostra rivista
Se lo ricorda bene il tempo dell’attesa. Quel tempo dilatato, quando le ore sembravano non passare mai, mentre se ne stava seduto sulla veranda di una capannuccia, a cercare di entrare nella cultura e nella mentalità del popolo balanta. Un popolo misterioso e affascinante, che chiedeva a lui – padre Roberto Donghi, missionario del Pime in Guinea-Bissau, a quel tempo trentenne pieno di energie e voglia di fare – un esercizio prolungato di pazienza.
Rientrato in Italia lo scorso settembre per curare la tubercolosi, padre Roberto – che compie 49 anni in questo mese di maggio – ha scoperto di avere un cancro. E di dover affrontare un altro tempo di attesa, dilatato dalla pandemia di Coronavirus, che rende tutto più difficile. «È il tempo in cui si cerca di capire che cosa il Signore ti chiede e si prova a continuare a essere utili», riflette il missionario.
Su un’altra veranda, quella della casa del Pime di Lecco – sua città natale, dove c’è anche la residenza dei padri anziani o malati -, col sole primaverile che illumina le montagne che tanto ama, padre Roberto ritorna volentieri alla sua missione in Guinea-Bissau. Del resto, il cordone ombelicale che lo lega a quel Paese e alla sua gente è ancora molto forte ed è fatto non solo di ricordi, ma di progetti e iniziative da portare avanti.
La “sua” famiglia balanta, che lo ha ribattezzato significativamente Tagme, “colui che si dà da fare” – perché effettivamente non era tipo da stare troppo con le mani in mano in veranda! – è preoccupata e si sente responsabile. «Ho dovuto rassicurarli del fatto che nessuno vuole farmi del male e tantomeno che mi ha fatto il malocchio. La malattia in Africa è spesso vissuta e interpretata in termini occulti. E per esorcizzarla occorre praticare dei riti». È una delle tante questioni che lo hanno interrogato nei nove anni vissuti a Komo, un agglomerato di famiglie, a venti chilometri dalla già remota missione di Catió. Un luogo difficile da raggiungere, dove terra e acqua si incontrano: mare, fiumi, risaie, mangrovie e foresta, una natura incontaminata, generosa, ma anche esigente.
È stata una scelta radicale quella di padre Roberto: calarsi completamente nella vita del popolo balanta, vivendo con loro e venendo accolto nella casa di un giovane uomo che, al momento del suo arrivo, aveva “solo” quattro mogli e 18 figli. Usi, costumi, tradizioni, riti e cerimonie, ma soprattutto quel rapporto complesso e imperscrutabile tra visibile e invisibile lo avevano stimolato e messo a dura prova. Specialmente tutto ciò che aveva a che fare con l’“oltre”: il mondo degli antenati e degli spiriti, quell’aldilà, che spesso pareva più reale, potente e decisivo della realtà stessa.
«Sono stati anni essenzialmente di presenza, neppure di primissimo annuncio. Ma sono stati importanti, per me e per loro, anche se mentre stavo lì non era sempre facile capirlo», ricorda il missionario. «Per un anno e mezzo – continua – non ho fatto praticamente nulla. Abbiamo praticato quello che chiamano jumbai: sedersi e ascoltarsi a vicenda. Certo, condividevo la loro vita quotidiana e lavoravo con gli uomini nelle risaie. Poi, un po’ alla volta, abbiamo provato a realizzare qualcosa insieme, qualcosa che nascesse dai loro bisogni e desideri, non che venisse in qualche modo proposto o imposto da me».
Sono nate così una scuoletta di fango e paglia e una specie di cooperativa per la gestione del riso. Cose molto semplici, ma altrettanto significative. Perché la scuola è progressivamente cresciuta: ora arriva sino alla sesta classe ed è entrata a far parte di un gruppo di cinque scuole che fanno riferimento alla missione di Catió e sono supportate dal Sostegno a distanza della Fondazione Pime di Milano. Per regioni così remote e abbandonate, dove il 70% della popolazione è analfabeta, è un’opportunità unica di poter studiare.
«Anche per quanto riguarda la cooperativa – aggiunge il missionario – si è trattato di un esperimento del tutto nuovo: quello di far lavorare insieme i diversi clan, cosa per nulla scontata perché ciascuna famiglia allargata tende a far riferimento solo a se stessa. Tuttavia, le modalità molto rudimentali di lavoro in risaia e gli eventi climatici spesso estremi rendono la produzione scarsa e irregolare. Ci sono stati momenti in cui la gente era alla fame. Per questo era importante poter mettere insieme le forze, anche se per farlo occorreva superare vincoli consuetudinari e di mentalità». Vincoli che, in una cultura così fortemente identitaria e ancorata alla tradizione, rendono difficile qualsiasi cambiamento.
Padre Roberto, tuttavia, è riuscito a fare qualche piccolo passo concreto, affrontando anche alcune questioni “spinose”, come quella del perdono invece della vendetta, o quella del “regolamento dei conti” con gli antenati di fronte alla malattia o alla morte. «Dinamiche interessanti, ma anche destabilizzanti», ammette padre Roberto che, dopo molti sforzi e tanta pazienza, è stato accettato persino nel gruppo dei “grandi”, ovvero di coloro che hanno diritto di parola e hanno accesso alle cerimonie di iniziazione. Gli sono state affidate anche una parcella di risaia e alcune mucche che tuttora qualcuno gestisce al posto suo. Come se fosse lì. La lontananza fisica nulla toglie all’appartenenza. Quando si è parte di una famiglia lo si è per sempre, ovunque ci si trovi.
«Se si parte da zero, è tutta una questione di relazioni – riflette padre Roberto -. E questo richiede moltissimo tempo. Anche per l’annuncio. Ho dovuto imparare ad apprezzare il loro modo di vivere e di intendere il mondo, i loro valori e riferimenti, non solo in termini di conoscenza, ma anche empatici. Sapevano che ero “l’uomo di Dio” e che ero lì per loro, ma non avevano nessuna conoscenza del cristianesimo». Eppure qualcosa è rimasto e padre Roberto lo ha ritrovato specialmente in quei giovani che, terminata la scuola primaria, hanno continuato gli studi in città, sperimentando anche maggiore libertà rispetto alle regole del clan. «Alcuni di loro hanno chiesto di fare il cammino di catecumenato e di diventare cristiani. Sono pochissimi, ma la ricchezza della missione e del messaggio evangelico non si misura in numero di battesimi».
È quello che padre Roberto ha sperimentato anche negli ultimi nove anni passati a Bubaque, nell’arcipelago delle Bijagos, un paradiso naturale fatto di una miriade di isolette. «Qui mi sono dovuto confrontare con una cultura matrilineare e matriarcale, con usi, costumi, lingua e tradizioni completamente diversi rispetto a quelli dei balanta. Ma anche con una vera e propria comunità cristiana che, per quanto piccolissima e “mobile”, è più strutturata e chiede un accompagnamento pastorale». Sono tra i 200 e i 300 i battezzati sull’isola principale, quella di Bubaque appunto, e una manciata sulle altre 19 isole abitate. Molti, soprattutto i giovani, tendono a lasciare le Bijagos per proseguire gli studi nella capitale Bissau e dunque anche la comunità cristiana ne risente. «Io e padre Davide Simionato prima e, più recentemente, padre Luca Vinati – racconta – abbiamo sempre lavorato soprattutto con gli adulti. È molto raro che vengano battezzati bambini di coppie cristiane. Tutti i percorsi di catecumenato coinvolgono dei giovani e ogni anno facevamo al massimo una decina di battesimi. Abbiamo anche iniziato ad accompagnare alcune coppie al matrimonio. Per loro si tratta di un grande passo e di una vera e propria scommessa, perché spesso non sono supportati dalla famiglia, anzi!».
A Bubaque, padre Roberto ha creato una piccola Caritas per far fronte ai bisogni più urgenti di una popolazione estremamente povera e che vive in modo molto precario. Grazie agli aiuti di Fondazione Pime, ma anche dell’Associazione Tagme di Lecco che ha inviato molti volontari sul posto, è stato possibile costruire o ristrutturare diversi edifici della missione e sostenere tanti bambini per la scuola.
«In queste settimane sento vicina la comunità cristiana di Bubaque – dice padre Donghi – non solo perché si sta cercando di portare avanti tutti i progetti, ma soprattutto perché so che mi accompagna in questo momento di malattia. Che per me rappresenta un’altra sfida. Di nuovo si tratta di comprendere qualcosa che non si conosce, ma anche di tessere relazioni, provando a “perdere tempo” per incrociare le vite degli altri e condividere un cammino di fede che, per quanto mi riguarda, non può prescindere dagli incontri, dalle persone concrete, dalle storie. In questo senso, provo pure a capire che cosa significa vivere la missionarietà in questa Italia che è cambiata molto da quando sono partito e in un tempo in cui il Coronavirus rende tutto più strano e difficile. A volte mi sembra di fare a pugni con la fede, perché non ci sono sempre risposte chiare. Ma sento anche che devo tenere duro e nutrire la speranza».