Significa «mi dispiace», ma vuol dire molto di più: esprime quel senso di vicinanza e solidarietà che lega le persone specialmente nei momenti più difficili
Quand’ero nel seminario del Pime di Monza, scherzando con gli amici, spesso ci dicevamo che la vita è un dolore e i dolori nascono dai desideri. Ma che cosa succede quando le sofferenze derivano da situazioni reali e drammatiche come una malattia, un incidente o addirittura la morte? Spesso ci si sente impotenti. Ma quando non si può fare niente, si può almeno stare insieme. Sono i momenti in cui scopriamo la vera natura delle persone. Un proverbio inglese dice: «A friend in need, is a friend indeed», che significa che un amico lo si vede nel momento del bisogno. È una cosa che constato spesso nella mia missione di Ouassadougou.
Ogni giorno mi rendo conto di come gli ivoriani siano molto solidali. Qui, nella realtà rurale in cui mi trovo, non esiste ad esempio la concezione di proprietà personale. In certi villaggi, la terra continua a essere in comune, non ci sono documenti che ne definiscano la proprietà individuale. I legami tra le persone sono molto forti, al punto che tutti si chiamano, tra di loro, fratelli e sorelle.
Questa solidarietà diventa ancora più forte e concreta quando succede una disgrazia nel villaggio o in una famiglia: specialmente quando c’è un lutto. La solidarietà diventa un’azione collettiva: tutti si mobilitano per affrontare il dolore. La parola che traduce quest’azione di solidarietà e vicinanza è yako. È una piccola parola ma trasmette una grande emozione. Si potrebbe tradurre con «mi dispiace» o «condoglianze», ma in verità va oltre il dispiacere. Letteralmente vuole dire «io compatisco con te». Esprime, in sostanza, l’empatia.
Yako è una delle prime parole che ho imparato qui in missione. Se fossero tutte così semplici, a questo punto saprei parlare la lingua locale alla perfezione, ma purtroppo non è così. Però sono contento di aver subito imparato una delle più importanti, che trasmette solidarietà e amore.
Yako non è solo qualcosa che si dice, ma è qualcosa che si traduce anche in aiuto e in dono alla famiglia che ha subìto un lutto o alla persona in difficoltà. Tutto il villaggio si dà da fare e dimostra concretamente la sua vicinanza. Tutti contribuiscono affinché la morte, la malattia o una disgrazia non diventino ancora più pesanti per la famiglia o l’individuo.
Questa espressione di fratellanza è spesso accompagnata anche da una preghiera: «Ngamie boukae», che significa «Che Dio ci aiuti». Vuole dire che quando l’uomo fa la sua parte, attraverso la vicinanza e la solidarietà, poi Dio farà il resto.