Zimbabwe: cresce il fronte contro la pena di morte

Zimbabwe: cresce il fronte contro la pena di morte

È arrivato alla Corte suprema il ricorso che permetterebbe di dichiarare incostituzionale la pena capitale, e il parlamento deve votare la riforma delle leggi penali: ma al vertice del governo le resistenze non sono ancora vinte.

 

Erano 76 nel 2013, 98 un anno dopo, 117 pochi giorni fa. Condannati a morte, in attesa nelle prigioni dello Zimbabwe, dove la sentenza capitale non viene eseguita da oltre dodici anni, ma non pochi tribunali continuano a imporla contro i crimini di omicidio e tradimento. Anche in assenza di un boia disposto ad occuparsi dell’impiccagione, perché nessun cittadino, da tempo, risponde alla chiamata del governo.

A mettere fine a tutto questo vorrebbe essere Tendai Biti: avvocato, ex ministro di un esecutivo di unità nazionale e oggi all’opposizione. È stato lui a presentare alla Corte suprema i ricorsi di quindici detenuti, che aspettano l’esecuzione da anni: chi quattro, chi addirittura venti. Tra loro c’è Cuthbert Chawira, le cui parole sono state lette in udienza, il 13 gennaio: “L’attesa dell’esecuzione è una tortura tale, che sarebbe incostituzionale ucciderci”. Ecco dunque l’obiettivo di Biti: convincere i giudici non solo a salvare i quindici autori del ricorso, ma a dichiarare definitivamente illegale nel Paese la pena di morte.

Difficile, in realtà, che la strada sa così diretta. All’avvocato, secondo il quotidiano statale Herald uno dei magistrati ha risposto chiedendo semplicemente: “E perché questi prigionieri non vengono uccisi?”. Né, al momento, è stato reso noto quando la corte pensa di emettere la sua sentenza. La vicenda, però, potrebbe trasformarsi in uno strumento di pressione sul parlamento, che deve votare la riforma di alcune leggi penali. Anche Biti è convinto che il mondo politico possa dare il suo contributo: “Persino il ministro della Giustizia, che adesso è vicepresidente – ha spiegato ai giornalisti di Voice of America – non crede nella pena di morte”.

In effetti è stato proprio l’uomo incaricato di autorizzare le esecuzioni, il Guardasigilli e numero due del governo, Emmerson Mnangagwa, a far sentire negli ultimi anni la sua voce contro la pena capitale. “Mi dimetterei piuttosto che firmare una condanna a morte”, arrivò a dire nel 2013, ben prima di essere chiamato alla seconda carica dello Stato. Sulla sua posizione si dice abbia influito la sua esperienza di combattente per la libertà, quando rischiò di essere messo a morte dal regime di minoranza bianco che fino al 1980 governava il Paese, allora chiamato Rhodesia. Eppure si tratta dello stesso Mnangagwa diventato poi noto come ‘Coccodrillo’: allusione anche alla brutalità con cui affrontò, arrivato al governo, gli oppositori in Matabeleland e nelle Midlands.

Né la Giustizia a cui è intitolato il suo ministero è molto praticata nel Paese di Mnangagwa, che risponde direttamente al presidente Robert Mugabe: 91 anni, 35 dei quali passati al potere tra ricorrenti accuse di abusi dei diritti umani. Questo il biglietto da visita del despota che nel 2010 minacciò proprio di ricorrere alla pena capitale contro chiunque avesse sostenuto le sanzioni europee e statunitensi in vigore contro lo Zimbabwe. Un paradosso che la battaglia di Tendai Biti e dei quindici reclusi dovrà necessariamente affrontare.