Cicloni, inondazioni… il Bangladesh è ad altissimo rischio per i cambiamenti climatici: «La soluzione? È nelle mani dell’uomo», racconta padre Ezio Mascaretti
Villaggi di fango e bambù circondati da una distesa azzurra di centinaia di corsi d’acqua: quando padre Ezio, trent’anni fa, mise piede per la prima volta nella missione di Gournady, nella Baia del Bengala, si trovò a familiarizzare presto con il paesaggio unico di quest’angolo d’Asia. Le varie parrocchie dove avrebbe vissuto negli anni seguenti, da Narickel Bari a Padrishibpur, nella zona di Barisal (diocesi di Chittagong), si trovano infatti tutte nel cuore del delta più esteso al mondo: quello del Padma, come qui è chiamato il Gange, le cui acque, mischiatesi con quelle del Brahmaputra (Jamuna) e del Meghna, si dividono in 230 fiumi e corsi d’acqua minori.
E padre Mascaretti, classe 1944, missionario del Pime dall’81, purtroppo non dovette aspettare molto per sperimentare anche le drammatiche contraddizioni che condizionano la vita di chi vive in questa regione nel Sud del Bangladesh, dove le correnti calde del Golfo del Bengala si scontrano con i venti freddi che scendono dall’Himalaya, creando potenti cicloni che vengono incanalati nella baia. Con conseguenze disastrose per un Paese piatto come il pane chapati, qui immancabile a qualunque pasto.
«Già nel 1988 e nell’89 subimmo inondazioni, con metà Bangladesh finito sott’acqua», ricorda il missionario, bergamasco di Villa d’Almè. Nel ’91, poi, fu la volta di uno dei peggiori cicloni tropicali mai registrati, Sidr, che colpì proprio la zona di Chittagong, tra le più popolate del Paese: 140 mila le vittime, 10 milioni gli sfollati. «Fu infernale. L’intera missione fu rasa al suolo in mezz’ora. E ancora, nel ’98, un’alluvione sommerse tre quarti della nazione per un mese e mezzo».
Uragani, inondazioni, disastri ecologici: il Bangladesh, di per sé vulnerabile a questi fenomeni, oggi è uno dei Paesi in assoluto più a rischio per le conseguenze di quei cambiamenti climatici che Papa Francesco, nella Laudato si’, definisce «una delle principali sfide attuali per l’umanità».
«Vari studi dimostrano che in pochi decenni, a causa dello scioglimento dei ghiacciai, le acque dell’oceano si innalzeranno», spiega padre Mascaretti. «Basterebbe un metro d’acqua in più, e l’intero Sud del Bangladesh rimarrebbe sommerso…». Uno scenario drammatico, che secondo le stime potrebbe avverarsi entro quarant’anni, portando con sé milioni di nuovi migranti ambientali. E non è finita qui. Se, per l’innalzamento del mare, i fiumi del delta non riusciranno più a riversare le loro acque nel Golfo del Bengala, oltre alle alluvioni si verificherebbe una progressiva “invasione” dell’acqua salata marina che entrerebbe nel letto dei fiumi, avvelenando i terreni circostanti. Già oggi, il sale marino ha reso sterili molte terre: la gente non riesce più a coltivare nemmeno il minimo indispensabile per sopravvivere e spesso è costretta ad abbandonare le rive dei fiumi o i char – le isole di sabbia e limo nel delta del Padma e nel Golfo del Bengala, dove abitano più di 5 milioni di persone – per cercare fortuna negli slum di Dhaka…
All’opposto, gli squilibri climatici aumenteranno anche la frequenza e la gravità dei periodi di siccità. Il Climate Change Vulnerability Index (CcviI) della Maplecroft, che analizza e mappa la vulnerabilità al cambiamento climatico in tutto il mondo, classifica Dhaka e Chittagong “a rischio estremo”.
Una sfida enorme, per il governo così come per la Chiesa, da tempo in prima linea nel denunciare la deriva delle devastazioni ambientali (vari gli appelli a una maggiore consapevolezza ecologica lanciati dall’arcivescovo emerito di Dhaka monsignor Costa, mancato a gennaio) ma anche nel far fronte concretamente alle emergenze. Soprattutto attraverso la Caritas, che in molti casi rappresenta lo strumento di azione anche per i missionari. Ne sa qualcosa padre Ezio, che, grazie ai suoi studi da geometra, già dai primi anni di missione oltre che a costruire chiese – oggi una decina in tutto il Bagladesh – si dedicò a tirare su rifugi anti-ciclone in cemento.
«Qui la gente vive in casette di bambù: quando la minaccia dell’acqua incombe, le persone non fanno altro che radunarsi sulle strade più elevate dove edificano mini-villaggi in cui vivono fino alla fine dell’emergenza», spiega.
«A dare una mano, solo qualche ong e noi religiosi. Anche i fondi del Pime arrivati, ad esempio, in occasione del ciclone del 2007 sono stati versati alla Caritas attraverso la diocesi: noi abbiamo preparato i progetti dei rifugi e loro li hanno realizzati, sempre con la massima attenzione al sistema di “quote” su base religiosa che governa la distribuzione degli aiuti». Normale, in un Paese dove i musulmani sono l’85%, gli indù il 24%, mentre buddhisti e cristiani insieme non raggiungono l’1%.
Il vero problema, tuttavia, è costituito dalla corruzione endemica. «Per costruire casette in muratura da assegnare alla gente o rifugi contro le alluvioni è sempre necessario passare attraverso le autorità locali, che immancabilmente chiedono mazzette o fanno in modo di economizzare sulla realizzazione dei progetti, con conseguenze sulla sicurezza, per trattenere la loro fetta della torta…». A pagare, come sempre, sono poi i poveri.
Un importante cambiamento di prospettiva, in questo senso, arriva proprio dall’enciclica del Papa: «Francesco, nella Laudato si’, sottolinea un concetto chiave, e cioè quanto i miglioramenti, per il futuro, dipendano da noi uomini», osserva il missionario. «Una verità evidente in Bangladesh, dove troppe scelte sono state fatte e continuano ad essere compiute non avendo in mente il bene del popolo e dell’ambiente ma i tornaconti personali o gli interessi a breve termine». Qualche esempio? «Un tempo l’oro del Bangladesh era l’acqua, ora i fiumi stanno morendo: nei pressi delle città i letti sono neri per gli sversamenti delle industrie, che non hanno impianti di depurazione… Chi viveva di pesca ora non ha più niente, mentre l’impatto per la salute pubblica è massiccio. Così come irrespirabile è l’aria nelle zone dove si cuociono i mattoni».
I missionari, a fianco delle opere materiali – il Pime nella diocesi di Chittagong ha anche ostelli per i poveri e cliniche -, si concentrano sull’azione più strategica, quella educativa: «Nelle nostre scuole, come quella di Padrishibpur, frequentata da 1.800 ragazzi, insegniamo a rispettare il creato a cominciare dalle azioni quotidiane di responsabilità civica».
E la Laudato si’ è stata accolta con entusiasmo: l’arcivescovo Patrick D’Rozario, presidente della Conferenza episcopale, ha voluto distribuire in tutte le parrocchie una lettera pastorale in cui ne sintetizza i contenuti. Perché anche i fedeli bangladesi possano essere in prima linea nella cura della Casa comune.