Il fenomeno del land grabbing ha assunto dimensioni planetarie. Ma è particolarmente controverso in Africa, in Paesi dove spesso non è garantita la sicurezza alimentare. Il caso del Mozambico
La “corsa alla terra” è il nuovo Far West del XXI secolo. Tutti ci si buttano e il fenomeno ha preso una dimensione planetaria. Anche se almeno il 60 per cento dell’accaparramento di terre pare avvenga in Africa (32 milioni di ettari). Il paradosso – o lo scandalo – è che quanto più un Paese è a rischio sicurezza alimentare, tanto più sembra cedere le proprie terre fertili a investitori internazionali, governi, multinazionali, sceicchi o speculatori. Un caso emblematico? Il Mozambico. «Questo Paese – denuncia padre Andrea Facchetti, missionario saveriano a Charre, nel Nord – è uno di quelli che maggiormente sta subendo il fenomeno del land grabbing. Il ProSavana, ad esempio, è un progetto immenso che abbraccia 19 distretti di tre regioni diverse, dove risiedono quattro milioni di persone. Che, nella migliore delle ipotesi, rischiano di diventare manodopera a basso costo per le multinazionali. Come nel tempo coloniale. O peggio».
Avviato nel 2011, il progetto ProSavana è uno di quei casi in cui si intrecciano mirabilmente ambiguità e mistificazioni. E secondo la prospettiva da cui lo si guarda può apparire come una vicenda di accaparramento della terra o uno straordinario progetto di sviluppo rurale.
Quest’ultima, ovviamente, è la prospettiva del governo del Mozambico e dei suoi partner: Brasile e Giappone. La denuncia di land grabbing viene invece dalla società civile, dalle associazioni contadine e dalla Chiesa.
«Stiamo parlando di 145 mila chilometri quadrati di terra, lungo la strada che va verso Nampula e il Malawi. Molti abitanti sono stati costretti a lasciare i loro villaggi o ad accettare di lavorare come braccianti per le multinazionali». Claudio Zuccala è un Padre Bianco, che da anni vive tra Beira e Tete e che insieme ad altri missionari e alla Chiesa locale ha denunciato a più riprese questo progetto, che non tiene in nessun conto il rapporto tra la popolazione locale e la terra, ma è finalizzato a produrre su vasta scala soia, mais, canna da zucchero e cotone da esportazione.
«Non si può parlare di vere e proprie espropriazioni – spiega il missionario – perché in Mozambico solo lo Stato è proprietario della terra. Di fatto però, chi non accetta le condizioni imposte dal progetto ha dovuto andarsene e questo ha creato molte tensioni. Anche perché la gente qui è molto povera e l’80 % vive di agricoltura».
«Dove andrà tutta la popolazione costretta ad abbandonare la propria terra? – hanno denunciato recentemente anche i missionari comboniani -. E quale sarà l’impatto ambientale di un tale mega-progetto? Quali conseguenze avrà sulle acque sotterranee? E, infine, quali effetti politici avrà sul fragile equilibrio sul quale oggi si regge la pace in Mozambico?».
Tutte questioni che restano aperte. Intanto, lo scorso aprile, nelle province di Niassa, Nampula e Zambézia, le organizzazioni contadine hanno rifiutato l’attuazione del progetto ProSavana nelle loro comunità, non lasciandosi lusingare o intimidire da promesse o minacce.
Il Mozambico è uno di quei Paesi dalle molte facce. Da un lato, infatti, sta facendo registrare un sostanzioso e costante incremento del Pil annuo che si aggira attorno al 7-8%. Dall’altro, questo non si concretizza in un reale miglioramento delle condizioni di vita della gente.
«Negli ultimi dieci anni – commenta padre Andrea – il numero assoluto dei poveri è aumentato di due milioni. In sintesi: una crescita senza sviluppo. Il Pil cresce, ma l’economia nazionale non è in grado di trattenere la ricchezza generata nel Paese, perché controllata dal capitale straniero. La ricchezza, in questo modo, va all’estero, mentre la popolazione continua a essere affossata nella povertà. Da un colonialismo all’altro. Da una dipendenza all’altra».
«A Tete, dove mi trovo attualmente – aggiunge padre Zuccala – il fenomeno del land grabbing è legato allo sfruttamento minerario. Qui c’è il più grande giacimento a cielo aperto di carbone al mondo, sfruttato da Vale (brasiliana), Rio Tinto (anglo-australiana) e Icvl (indiana), affiancate recentemente da una compagnia degli Emirati Arabi e da una del Kazakistan».
Infine, altra faccia della “corsa alla terra” è quella della deforestazione. Nel caso del Mozambico, in particolare, il fenomeno è legato all’esportazione di legname pregiato, che viene inviato per il 93% in Cina.
«La questione del furto delle terre – commenta padre Gian Paolo Pezzi, comboniano e grande esperto del tema – è uno snodo centrale di collegamento per le problematiche di acqua, minerali grezzi e identità culturale».