Papa Francesco è il terzo pontefice a Cuba in 18 anni. Ma lo scenario nell’isola è totalmente cambiato, dal disgelo con gli Usa al processo di pace in Colombia. Fino a un’inedita fiducia nei confronti della Chiesa
Tre visite papali in 18 anni rivelano l’interesse col quale la Chiesa segue l’evoluzione di Cuba. È evidente che il contesto nel quale avverrà il viaggio di Francesco nella nazione dei Caraibi, dal 19 al 23 settembre, è sostanzialmente diverso da quello del viaggio di Giovanni Paolo II nel 1998 e di quello più recente realizzato da Benedetto XVI nel marzo del 2012.
La differenza più significativa è la normalizzazione dei rapporti tra Washington e L’Avana che, in sei mesi dal suo annuncio, lo scorso 17 dicembre, ha prodotto frutti concreti: la riapertura, dopo 54 anni, delle rispettive ambasciate, annunciata a luglio e prima ancora la cancellazione di Cuba dalla lista dei Paesi che patrocinano il terrorismo. Quest’ultima misura è stata la premessa per alleggerire varie altre sanzioni: è stato elevato notevolmente il limite massimo delle rimesse che i cubani residenti negli Usa possono spedire alle loro famiglie, ci sono meno restrizioni e più voli per recarsi nell’isola, un traghetto potrebbe presto unire la Florida con L’Avana.
Restano in piedi gli scogli piú difficili. Il primo è l’embargo commerciale. Paradossalmente, il presidente Obama ha manifestato che la sua decisione di ristabilire le relazioni con Cuba si basa sulla constatazione del fallimento di un embargo che non è riuscito a imporre cambiamenti sostanziali al regime comunista. Ma per abolirlo vanno modificate le leggi che lo dispongono e nel Parlamento Usa, attualmente, la maggioranza è in mano all’opposizione repubblicana, che si oppone alla politica presidenziale di apertura. Il principale motivo di tale diniego è, finora, la fedeltà ai voti della numerosa e influente comunità cubana, acerrima nemica del regime comunista. Anche se ormai una buona metà di questa, sopratutto tra i discendenti di seconda generazione, è favorevole al nuovo corso dei rapporti bilaterali.
Un altro scoglio è la restituzione del territorio di Guantanamo, l’enclave che ospita una base militare statunitense trasformata in una carcere per gli indiziati di terrorismo provenienti da vari Paesi mediorientali. Sembra difficile che in tempi brevi gli Stati Uniti possano restituire il territorio in questione. Obama non è riuscito a chiudere il carcere, che ancora ospita un centinaio di prigionieri – la gran parte senza alcun capo d’imputazione – e rappresenta un limbo giuridico che contraddice la difesa statunitense dei diritti umani a Cuba.
Ma in tutti questi anni sono cambiate anche le relazioni di Cuba col resto della regione. Se a suo tempo i pessimi rapporti con Washington spinsero i Paesi dell’Organizzazione degli stati americani (Oea, secondo la sigla in spagnolo) a seguire la Casa Bianca e ad espellere il regime castrista da tale consesso, oggi il processo è inverso: Cuba è stata riaccolta nell’Oea e da anni l’Assemblea generale dell’Onu vota a grande maggioranza a favore della cessazione dell’embargo. L’Avana è membro di vari ambiti regionali d’integrazione politica ed economica ed è inoltre sede e garante del processo di pace che cerca di mettere fine al conflitto interno in Colombia.
Sono aspetti che il Papa conosce molto bene e che di certo hanno pesato nella mediazione realizzata dalla diplomazia vaticana tra Wasghington e L’Avana. Cosciente di tale ruolo, svolto con discrezione, in occasione della sua visita alla Santa Sede il presidente Raúl Castro ha ringraziato Bergoglio, dal quale è rimasto impressionato molto positivamente, al punto da esclamare che il Papa potrebbe operare un suo ritorno alla Chiesa cattolica. Un’iperbole del leader cubano – molto probabilmente – utilizzata per indicare la sintonia con la posizione del Papa, ad esempio, nei confronti delle ingiustizie sociali. Ma è anche un segno di un rapporto di fiducia che parla di tempi nuovi. Una fiducia simile a quella manifestata da Castro nei confronti di Obama, del quale ha riconosciuto con entusiamo l’onestà intellettuale e l’estraneità agli effetti delle sanzioni imposte al suo Paese per decenni.
In questo contesto rinnovato, c’è da chiedersi quali cambiamenti si stiano verificando nell’isola. È probabile che questi siano meno visibili di quanto si vorrebbe e che quelli in atto, ad esempio in materia economica, siano ancora timidi. Chi si aspetta colpi di timone spettacolari resterà probabilmente deluso. Il regime ha colto che un mondo diverso esige anche un nuovo schema di governo. La questione è come evitare che questo cambiamento avvenga in modo traumatico in un Paese nel quale decenni di centralizzazione non hanno educato allo spirito d’iniziativa, sul piano economico, politico e sociale. I due unici candidati dissidenti presentatisi alle ultime elezioni locali – tuttora una novità -, hanno ottenuto scarso appoggio. «La gente ha poca voglia di cambiamenti»: così si spiegava il risultato uno dei due.
Ma se gli Usa cessano di rappresentare la causa perenne di ogni problema interno, anche la Chiesa può diventare un alleato nella costruzione del bene comune, sopratutto se si aprono spazi alla società civile. In questi anni si è parlato molto di Cuba, ma sempre fuori dall’isola. È molto probabile che la fase attuale, facilitata anche da un’azione intelligente quanto materna della Chiesa, possa finalmente mettere le basi di una discussione sul futuro di Cuba proprio tra i cubani.