Padre Giovanni Belloni, per molti anni missionario del Pime in Bangladesh, racconta i suoi numerosi incontri a Calcutta, in India, con Madre Teresa e con le Missionarie della Carità
C’è voluto un po’ di tempo perché comprendessi che cosa Madre Teresa intendeva dirmi quando ci siamo incontrati, dopo la celebrazione della Messa nella Casa madre della sua congregazione. Mi chiedeva: «Ogni volta che metti alcune gocce d’acqua nel vino del calice, pensa a me!». Voleva essere unita a Gesù nella sua trasformazione e nell’offerta, così da arrivare alla santità.
L’episodio risale ai primi di ottobre del 1995. Era l’ultima volta che sostavo a Calcutta. Fra le megalopoli indiane era quella che evidenziava maggiormente la povertà e l’indigenza di gran parte della sua popolazione. E in questo vedo una buona ragione perché nel disegno di Dio ci fosse una persona come la Madre e perché la sua congregazione iniziasse proprio da qui la sua opera di dedizione ai più poveri tra i poveri.
A Calcutta la comunità delle suore di Madre Teresa è assistita dai gesuiti di Park Street, dove gestiscono il prestigioso St. Xavier’s College. Alcune volte, di passaggio dalla città, mi ero unito al religioso di turno per la concelebrazione, mentre in quell’occasione uno dei padri mi aveva chiesto se potevo sostituirlo.
Oltre alle suore e alle novizie, alla celebrazione erano presenti dei volontari, per lo più stranieri, che in giornata avrebbero svolto la loro opera nelle diverse case delle suore in città o nei dintorni. Una volta tolti i paramenti mi si avvicinò la Madre e mi accompagnò nella saletta della colazione. Volevo ringraziarla per la rapidità con cui ci aveva inviato le sue suore in occasione del ciclone che aveva colpito il Sud del Bangladesh la notte del 29 aprile 1991. Ma appena sentì la parola “ciclone”, la Madre iniziò a parlare della sua visita all’area alluvionata in elicottero assieme al primo ministro; andava avanti a raccontare tenendomi la mano, e non mi fece aggiungere altro…
Quando ci si accomiatò la Madre mi mise tra le mani un biglietto da visita; non indicava titoli accademici o i recapiti telematici o postali, ma questo suo pensiero: «Il frutto del silenzio è la preghiera / Il frutto della preghiera è la fede / Il frutto della fede è l’amore / Il frutto dell’amore è il servizio».
Erano stati i contatti con la comunità delle Missionarie della Carità di Dhaka a permettermi di entrare in contatto diretto con la Madre. Le suore delle sue comunità cercano di comunicare tra di loro; allora non c’era la posta elettronica, quindi – quando avevo in programma di passare da Calcutta – mi facevo latore di lettere che le suore mi davano da recapitare alla loro Casa madre.
Una volta chiesi a Madre Teresa: «Chi le ha dato la forza di cambiare congregazione, l’abito e la regola, in un tempo in cui tutte queste cose erano considerate “sacre”?». Mi rispose convinta: «È stato Lui!», intendendo Gesù sacramento nell’Eucaristia. A questa sua esperienza personale aggiungeva che aveva quattromila “tabernacoli”, le comunità delle sue suore sparse nel mondo.
In un’altra delle mie soste a Calcutta, un giovane gesuita francese mi invitò a visitare con lui la Nirmal Hriday Ashram (la “Casa del cuore puro”), la casa dei moribondi a Kalighat, che sorge proprio a lato del tempio alla dea Kalì. Fu la prima casa per anziani fondata dalla Madre nel 1952. In due grandi stanzoni – da una parte gli uomini e dall’altra le donne ed i bambini – quanti vengono raccolti dalle strade, abbandonati, che aspettano la morte, vengono sistemati in un ambiente ben pulito e dove ci si sente accolti anche con un sorriso.
Mentre il religioso si dedicava al suo lavoro, a me venne dato un grembiule verde con l’invito ad entrare nel salone dove ci sono gli uomini. Passando da un letto all’altro, mi rendevo conto che non era sufficiente la conoscenza della lingua bengalese: in una città cosmopolita come Calcutta si parlano diverse lingue, perché le persone vengono da diversi Stati del Paese. Cercavo di fare del mio meglio per farmi capire e capirli. Solo in seguito mi resi conto che i miei interlocutori erano persone senza fissa dimora e non era proprio opportuno chieder loro: «Dove abiti?».
Dopo un paio d’ore in cui cercavo di rendermi utile, assecondando il mio desiderio di “dover” sempre fare qualcosa, mi resi conto che la realtà mi offriva spunti di riflessione. All’improvviso mi trovai circondato da una decina di persone che venivano dal Canada. Si imponevano con la loro presenza come un improvviso scroscio di pioggia monsonica. Attraversavano la sala passando da un letto all’altro, con una velocità tale da non poter certo rendersi conto delle persone che si trovavano davanti. Muniti di macchine fotografiche cercavano di fermare il volto e l’attimo presente, in modo tale da poter mostrare agli amici, una volta rientrati in patria, di essere stati in quel luogo ed esibirne le prove. Al colmo del mio imbarazzo, una persona del gruppo mi chiese se mi interessasse avere una foto accanto a un ammalato: me l’avrebbe spedita a proprie spese. Era una proposta che ovviamente non destava in me alcun interesse…
Passato il ciclone dei “turisti”, alzai la testa in direzione della porta d’ingresso della sala; vidi un uomo anziano col dhoti – l’abito degli uomini adulti – che “contemplava” la situazione, senza alcuno schiamazzo e senza la pretesa di far rivivere questo momento una volta a casa. Mi venne spontaneo pensare alla diversità dell’approccio alla sofferenza altrui tra occidentali e orientali.
Poco dopo, quasi a coronare il mio breve passare da un letto all’altro, in mezzo a noi tutti, due giovani sposi distribuivano dolci ad ognuno dei degenti: quasi in punta di piedi e con tanta discrezione, come, appunto, si dovrebbe fare la carità.