In una remota regione dell’Etiopia, dove la gente vive con poco più di niente, abba Giorgio Pontiggia si confronta con povertà, razzie e campi profughi, ma anche con l’entusiasmo dei giovani
Si chiama Baro e significa il “fiume degli schiavi”. È il corso d’acqua che attraversa Gambela, cittadina del distretto occidentale dell’Etiopia. Da qui, partivano barconi carichi di schiavi destinati alle Americhe. Una pagina triste della storia dell’umanità che sembrava sepolta negli archivi del passato. Ma non è così. Lì vicino c’è un altro fiume, il Ghilo, affluente del Baro. Segna il confine con il Sud Sudan. Ma segna anche un presente marcato – sempre e di nuovo – da devastazione, morte e schiavitù. È una storia che si ripete drammaticamente uguale a se stessa. Con pochissimi testimoni. Tra questi, don Giorgio Pontiggia, 74 anni, missionario salesiano, che vive da 27 anni a Pugnido. Per tutti abba Giorgio.
In questo villaggio di ottomila abitanti a un centinaio di chilometri da Gambela – e circa a tre ore e mezzo di strade dissestate – si trova a vivere su una di quelle linee di confine sottilissime, che non sono solo geografiche, ma esistenziali. Un luogo apparentemente in mezzo al nulla, dove si incrociano storie di vita e Storia di popoli.
Ci sono innanzitutto le popolazioni locali, gli anuak, tenacemente arroccati a un’economia minima di sussistenza, piccoli campi e piccoli animali. Ma c’è anche una massa enorme di profughi – più di 80 mila – in fuga dal Sud Sudan e che continua a riversarsi qui, prima per la guerra con il Nord e ora per il conflitto fratricida che sta sfigurando quel che resta del Paese più giovane e fragile d’Africa. E poi ci sono bande di predoni murle, che attraversano il Ghilo quando è in secca, per attaccare e saccheggiare villaggi e, soprattutto, per rapire bambini che – venduti un tempo come schiavi – oggi vengono usati come servi. La sostanza cambia di poco.
«Lo scorso anno – ricorda abba Giorgio – c’è stato l’attacco più grave. I razziatori sono venuti in massa, a piedi, ma armati di tutto punto. Chi dà loro le armi? E chi ha interesse a creare questi gruppi? Sono grandi interrogativi a cui non sappiamo rispondere, ma vediamo le conseguenze nefaste. Nell’aprile del 2016, a Jikawo, non lontano da qui, sono state uccise più di duecento persone e rapiti oltre cento bambini. Per una volta, il governo ha reagito tempestivamente e mandato l’esercito. Sono riusciti a riportarne indietro la maggior parte. Quest’anno, di nuovo, sono venuti poco distante dalla nostra missione, tra due villaggi in cui abbiamo una chiesa. Erano un centinaio. Hanno distrutto, saccheggiato, razziato animali e rapito bambini. Alcuni sono piccolissimi. Li vendono o li usano come servi. Quando crescono non sanno neppure chi sono e da dove vengono».
La missione salesiana, però, non è mai stata toccata. «Qualche furto, piccoli episodi, niente di grave…», minimizza abba Giorgio, che però in passato si è trovato in mezzo a un altro conflitto. «Nel 2003 – racconta – ci sono stati scontri terribili, questa volta tra gli anuak di qui e gli habesha, gli “abissini”, dell’altopiano, che hanno in mano tutti i commerci. La strada per venire a Pugnido era stata chiusa e sul posto non c’era nessun sacerdote. Questo è durato sino al 2006, quando da Gambela si riusciva a venire solo nel weekend con un convoglio scortato».
A quel tempo, c’era un missionario di Maryknoll che aveva costruito una cappella e una semplice abitazione che è ancora quella in cui abitano abba Giorgio e il suo confratello abba Filippo, 44 anni, friulano. C’erano anche le suore di Madre Teresa, che si occupavano dei profughi in fuga dal Sud Sudan. Era la fine degli anni Novanta, inizio del Duemila, quando non era ancora stato firmato l’accordo di pace con Khartoum. I fuggitivi erano in gran parte cattolici e i vescovi sud sudanesi avevano chiesto ai loro omologhi etiopi di garantire a queste famiglie almeno la celebrazione della Messa e un minimo di accompagnamento spirituale. Poi, però, gli scontri interni all’Etiopia avevano costretto missionario e religiose a lasciare quell’area. Il compound della missione era stato saccheggiato e tutti i registri bruciati.
«Quando sono arrivato undici anni fa – ricorda abba Giorgio – ho trovato una quarantina di cattolici. Dopo circa un anno, ho ricominciato ad amministrare i battesimi. E un po’ alla volta, grazie a una situazione di relativa calma e alle molte attività create in parrocchia e attorno a essa, la vita della comunità cattolica è ripresa con vivacità. Quest’anno, nella notte di Pasqua, abbiamo raggiunto la cifra di 7.569 battesimi».
Grazie anche all’arrivo di abba Filippo, tre anni fa, e al sostegno di Missioni Don Bosco, la parrocchia salesiana di Pugnido ha conosciuto un grande sviluppo. Oggi, oltre alla chiesa e alla casa parrocchiale, ci sono undici cappelle in fango e lamiera sparse sul territorio circostante. Abba Giorgio vorrebbe ricostruirle in muratura e per questo ha lanciato un appello lo scorso Natale. Poi, però, al cuore della missione ci sono soprattutto i ragazzi: i più piccoli, duecento circa, che frequentano la scuola materna e hanno almeno un pasto al giorno oltre alla colazione, e i giovani dell’ostello, una sessantina di ragazzi e ragazze, che vengono da lontano e che frequentano la scuola superiore e il pre College. Più tutti quelli che frequentano l’immancabile oratorio.
Abba Giorgio si entusiasma quando parla di loro, specialmente dei “suoi” bambini. Lui che ha passato una vita negli oratori, tra Sesto San Giovanni nel Milanese e Chiari nel Bresciano, ha ritrovato la vivacità del mondo giovanile in Etiopia, dove è partito missionario a 47 anni, dopo lunghe parentesi in una scuola per ragazzi disabili e come maestro dei novizi. Prima a Dilla, nel Sud del Paese, e poi a Pugnido, dove vive da undici anni, abba Giorgio ha trovato la stessa energia: «Sono loro i protagonisti della missione – dice convinto -. Hanno una forza e un entusiasmo incredibili, trasmettono gioia e voglia di vivere. Non solo i più piccoli. Anche quando crescono, continuano spesso a frequentare il nostro oratorio, partecipano alle Messe, vivono con noi. E anche quando si trasferiscono altrove, tornano sempre a trovarci. Questi giovani sono una grande speranza per il futuro».
Diversa è l’aria che si respira nei due campi profughi, che si trovano nei pressi di Pugnido. Qui la missione salesiana ha costruito sei cappelle e garantisce la Messa domenicale. «Sono delle piccole strutture di fango con tetto di paglia – precisa il missionario – perché non è permesso costruire strutture stabili, così come non si può portare nessun tipo di aiuto materiale ai profughi, salvo qualche caso eccezionale».
È questa oggi l’altra grande emergenza che segna il territorio di Pugnido. Un’emergenza che si inserisce, in realtà, in una situazione che si trascina da molto tempo. Il campo profughi di Pugnido, infatti, esiste da una trentina d’anni; è il risultato dello stratificarsi dei conflitti tra Sudan del Nord e del Sud, prima della firma degli accordi di pace del 2005 e della nascita della Repubblica del Sud Sudan nel 2011. Qui i profughi erano innanzitutto shilluk, della regione di Malakal, nel Centro-ovest dell’allora Sudan. Tornati nei loro luoghi di origine, è cominciato l’afflusso massiccio sia di dinka che di nuer, le due principali etnie del Sud Sudan. Ma dopo lo scoppio della guerra civile nel dicembre del 2013 tra i militari del presidente Salva Kiir, dinka, e le milizie dell’ex vice presidente Riek Machar, nuer, i dinka sono scomparsi da Pugnido, dove attualmente ci sono 64 mila rifugiati, 19 mila dei quali arrivati dopo il dicembre 2013. Nel frattempo, tre anni fa, è stato aperto un nuovo campo, Pugnido II, dove attualmente sono ospitati, in distese sterminate di tende e capannucce, 17 mila sud sudanesi, il 56% dei quali sono donne.
«È una situazione molto penosa – spiega abba Giorgio, che di tanto in tanto affianca il confratello Filippo, incaricato di celebrare la Messa -. Dopo aver tanto combattuto e sofferto per l’indipendenza, ora il popolo del Sud Sudan sta vivendo una nuova catastrofe, di cui noi, qui in Etiopia, vediamo una delle conseguenze peggiori: migliaia di persone, tra cui moltissime donne e bambini, costrette a vivere di aiuti umanitari in questi enormi campi, senza una prospettiva di futuro».
Una delle cappelle, costruite in paglia e fango all’interno del campo profughi Pugnido II, è stata intitolata a Bakhita, la santa del Sudan. Lei stessa schiava, comprata, venduta e portata in Italia dai suoi padroni, una volta riscattata, è diventata una religiosa canossiana dalla vita esemplare. Per questo è stata canonizzata nel Duemila da Giovanni Paolo II. La sua è una storia di schiavitù e liberazione. Un piccolo segno di speranza tra masse di popoli alla deriva e nuovi schiavi del Ventunesimo secolo. MM