Il vicario apostolico dell’Arabia meridionale, mons. Paul Hinder, sarà al Pime di Milano il 15 settembre: il dramma dello Yemen, i limiti della libertà religiosa, ma anche un laboratorio straordinario di cattolicità
Quando nel 2005 Paul Hinder, neovescovo cappuccino proveniente dalla verde regione svizzera della Turgovia, stabilì la sua nuova casa tra le aride dune della Penisola araba, il suo incarico pastorale si estendeva sulla più vasta diocesi del mondo: oltre tre milioni di chilometri quadrati tra lo Yemen, l’Oman, l’Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti. Dopo che, sette anni fa, il vicariato è stato invece riorganizzato e diviso in due parti, la responsabilità per quello che i suoi fedeli chiamano semplicemente, e con vero affetto, il “vescovo Paul” si è ridotta “soltanto” a tre Paesi. Non dei più semplici, bisogna ammettere. I rampanti quanto contraddittori Emirati; l’Oman dell’islam ibadita, ufficialmente più aperto e dove tuttavia – solo per fare un esempio – le ricorrenti richieste della Chiesa di fondare alcuni istituti scolastici sono regolarmente ignorate; e infine il grande e tormentato Yemen. Un Paese cruciale nell’area, dove la storia del vicariato stesso affonda le sue radici, eppure oggi ostaggio di una guerra che ha reso la situazione umanitaria del suo popolo la più grave di tutto il pianeta.
Anche i cristiani hanno versato il loro tributo di sangue: il 4 marzo 2016, quattro suore di Madre Teresa furono trucidate da un commando di islamisti che avevano attaccato la casa di riposo da loro gestita, nella città portuale di Aden (brutalmente assassinati anche il personale e alcuni ospiti della casa, per un totale di 16 persone). Suor Annselna, suor Margarita, suor Reginette e suor Judith, provenienti da India, Rwanda e Kenya, si univano così alla lista dei martiri dello Yemen – che annovera altre tre missionarie della Carità, una filippina e due indiane, uccise da un estremista a Hodeidah nel 1998. L’ultimo sacerdote rimasto ad Aden, invece, il salesiano indiano padre Thomas Uzhunnalil, veniva rapito dallo stesso commando che massacrò le suore nel 2016 e rilasciato grazie a intensi sforzi diplomatici un anno e mezzo dopo.
Monsignor Hinder, quali notizie ha dallo Yemen in fiamme?
«Purtroppo accedere a informazioni di prima mano è difficilissimo. Attualmente io non posso tornarci e i miei contatti sono limitati, anche perché le persone al telefono non si esprimono e loro stesse non hanno una conoscenza del quadro generale, visto che la situazione varia notevolmente da una zona all’altra. Ciò che è chiaro è che l’intervento di forze esterne, in prima fila Arabia Saudita e Iran su fronti opposti, non ha fatto che aggravare le condizioni di un Paese in conflitto da decenni».
Come è coinvolta la Chiesa in questa tragedia?
«Anche se la missione nella penisola araba iniziò proprio in Yemen circa 180 anni fa, e la prima sede del vicariato fu Aden, oggi, dopo tre anni di guerra, la Chiesa come organizzazione è quasi inesistente. Restano dei fedeli in alcune parti del Paese, con cui però non ho contatti, mentre sappiamo che a Sana’a quelli che possono permettersi di muoversi in città si riuniscono di tanto in tanto, in un piccolo numero, a pregare con le suore di Madre Teresa. Ma non ci sono più sacerdoti, né i luoghi dove si celebrava la Messa. A Taiz già da due anni non esiste più nulla, la casa dove viveva il padre, e dove sorgeva una piccola cappella, è stata distrutta. Rimane un edificio a Sana’a che al momento non possiamo usare, ma di cui continuiamo a pagare l’affitto nella speranza di conservarlo per quando la situazione migliorerà. Queste, tuttavia, sono le conseguenze della guerra, non di una persecuzione mirata contro i cristiani: un’entità che, d’altra parte, quasi non esiste pubblicamente. È chiaro che dietro ai massacri delle suore c’erano delle forze radicali, ed è senz’altro possibile che un cristiano subisca qualche discriminazione nella vita quotidiana, ma a soffrire gli effetti devastanti del conflitto sono gli yemeniti nella loro totalità».
Vede degli spiragli per fermare questa tragedia?
«Non mi sembra di vedere tanto interesse in questo senso, perché ci sono troppi che guadagnano dalla guerra, e poi manca un’autorità che possa fungere da mediatrice tra le forze in conflitto. Una speranza è che le tribù e i capi delle diverse entità del Paese riprendano in un modo nuovo il tentativo di dialogo nazionale fatto qualche anno fa: sarebbe forse l’unico modo di arrivare a un’intesa, poi a un cessate il fuoco e, gradualmente, alla pace».
Un altro Paese del vicariato, gli Emirati, è coinvolto nella crisi regionale che contrappone Arabia Saudita e Qatar: queste tensioni influenzano anche la vostra vita quotidiana?
«Direi che per noi non ci sono molte conseguenze visibili di un conflitto le cui ragioni – lo dico chiaramente – per me restano incomprensibili. D’altro canto, noi cristiani qui siamo in un certo senso una “bolla” dentro la società, perché siamo tutti immigrati».
Che cosa significa essere una Chiesa migrante?
«Da una parte, rimane una certa precarietà a tutti i livelli: tra i nostri fedeli nessuno è davvero sicuro di essere ancora qui tra qualche mese. Quasi ogni settimana dobbiamo affrontare casi, a volte davvero drammatici, di persone che si erano giocate tutto per venire qui e guadagnare qualcosa da mandare alle famiglie e che, all’improvviso, perdendo il lavoro, devono andarsene. Anche noi sacerdoti dobbiamo rinnovare il permesso di soggiorno ogni pochi anni e questo ci lascia provvisori. Siamo una Chiesa pellegrina e questa, dall’altra parte, è secondo me anche una delle ragioni per cui molti cristiani sperimentano qui un impegno religioso più forte di quello che vivevano nei propri Paesi. Certo, anche noi abbiamo i nostri problemi pastorali, ma vedere l’entusiasmo con cui la gente si coinvolge in parrocchia e la fede incrollabile con cui vengono affrontate le difficoltà quotidiane riempie davvero il cuore».
E i numeri sono in crescita costante…
«Sì: in controtendenza rispetto all’intero Medio Oriente, qui i cristiani continuano ad aumentare, perché fanno parte della massa di lavoratori immigrati che costituiscono la maggioranza della popolazione. Nel caso degli Emirati sono addirittura l’80% degli abitanti! Nel mio vicariato stimiamo che viva circa un milione di cattolici, mentre in quello dell’Arabia settentrionale sono tra un milione e mezzo e due milioni. E i cristiani nella loro totalità sono ancora di più».
Provenienti da un centinaio di Paesi diversi: che cosa significa nella quotidianità?
«Qui sperimentiamo davvero la cattolicità della Chiesa. I nostri fedeli arrivano da tutto il mondo, anche se in prevalenza dall’Asia, e portano con sé una ricchezza eccezionale di culture, tradizioni, riti. È chiaro che ciò si traduce anche in una lotta costante per tenere insieme questa diversità e creare un senso di unità e appartenenza. Come pastore capisco molto bene che chi condivide la stessa origine geografica, la lingua o un rito liturgico abbia la necessità di ritrovarsi, e cerco di rispondere a questo bisogno pastorale. Dall’altra parte, è importante evitare che si creino dei “ghetti” etnici, perché vivere la Chiesa significa anche sperimentare l’apertura verso l’altro. Non è sempre facile, qualche volta sorgono tensioni da piccole cose. Un esempio banale è l’abbigliamento in chiesa: per le donne indiane non è lo stesso che per le filippine, gli americani vengono alla Messa in pantaloncini mentre gli africani indossano l’abito della festa… Dobbiamo imparare a essere tolleranti! In più, per noi che viviamo in una società a grande maggioranza musulmana, è essenziale essere uniti e venire percepiti come un’unica comunità cristiana».
Lei sostiene che la vostra esperienza nel Golfo possa contribuire alla riflessione sulla Chiesa del futuro: perché?
«Noi viviamo una situazione che, dal punto di vista sociologico, probabilmente si riproporrà anche in altre parti del mondo: le migrazioni, ma anche il numero ridotto di sacerdoti, che lascia grandi spazi al protagonismo dei laici. Sono loro, ad esempio, che ogni anno impartiscono il catechismo a migliaia di ragazzi, mentre, in occasione delle feste liturgiche più importanti, abbiamo a volte fino a cento persone che ci aiutano a distribuire la Comunione. Esiste un campo di libertà abbastanza grande, che è una benedizione in quanto i singoli possono sviluppare i propri carismi senza l’intervento costante del clero. È chiaro che questo ci pone anche alcune sfide, a cominciare da quella, fondamentale, della formazione. Senza contare che in certi casi i nostri sacerdoti, in particolare di alcune provenienze geografiche, non sono ancora sufficientemente pronti a collaborare con i laici, e soprattutto con le donne. Un problema che non è solo nostro. Da tanti punti di vista noi rappresentiamo un laboratorio».
Ma la Chiesa del Golfo riesce anche a incidere sulla società che la ospita?
«In alcuni campi, come quello dei lavoratori sfruttati, possiamo solo cercare discretamente di aiutare in modo privato. Un limite che non riguarda solo la Chiesa ma tutte le ong: ogni critica alla politica ufficiale di un Paese significa rischiare di non potervi più operare. Negli Emirati, tuttavia, c’è un settore importante in cui siamo attivi: quello delle scuole, frequentate anche da molti ragazzi di famiglie locali. Un campo dove possiamo promuovere un’educazione al mutuo rispetto, all’apertura, alla cultura della convivenza e della pace. Ci sono molti giovani di qui che hanno studiato in scuole cristiane e che davvero, in futuro, potrebbero agire da mediatori».
Restano però molti limiti alla libertà religiosa…
«Certo: io non converto nessuno, non impartisco battesimi… Mentirei se dicessi che questa, per un vescovo, non è una ferita aperta. Ed è un fattore che pesa anche sul dialogo interreligioso».
Lei dice che, nel contesto in cui vive, sentirsi in una situazione di vera parità nel confronto con l’islam è molto difficile. Che cosa ha imparato, in questi anni, sul dialogo possibile?
«Sicuramente, vivendo qui è cresciuto il rispetto per l’islam e, in particolare, per coloro che praticano con convinzione la loro religione. Un esempio che aiuta anche noi cristiani a vivere la nostra fede con un po’ più di visibilità e coraggio. Il dialogo tuttavia rimane generalmente molto superficiale: parlerei soprattutto di contatti quotidiani – con i datori o i colleghi di lavoro o, nel mio caso, anche con le autorità – che possono essere cordiali, ma che non raggiungono una profondità teorica. Poi esistono le iniziative organizzate, anche dalle istituzione governative, tutte valide e necessarie, ma limitate quando si arriva al concreto. Penso che siano più importanti gli incontri personali, quando c’è la possibilità. Dall’interesse per l’altro può nascere, poi, una comprensione reciproca».
Paul Hinder, Sabato 15 settembre
al Centro Pime di Milano
Il cappuccino Paul Hinder, svizzero, classe 1942 – alle spalle studi in Diritto canonico e Teologia in Germania – è il vicario apostolico dell’Arabia meridionale. Un incarico pastorale eccezionale e ricco di sfide che racconterà di persona sabato 15 settembre alle ore 16, al Centro Pime di Milano.
ll suo intervento si inserisce nell’ultima tappa “milanese” di “Tuttaunaltrafesta”, la Fiera del vivere solidale del Pime che quest’anno è diventata itinerante in città lombarde. Per il gran finale, “Tuttaunaltrafesta” torna “a casa”, ovvero al Centro Pime di Milano, alla vigilia del tradizionale Congressino missionario, che domenica 16 settembre, aprirà l’anno sociale 2018-2019.
La presenza di mons. Hinder sarà l’occasione anche per presentare il suo libro Un vescovo in Arabia. La mia esperienza con l’islam (con Simon Biallowons, Emi, pp. 208, euro 17). Il volume, con prefazione di Paolo Branca, racconta la vitalità di una comunità cristiana costituita da milioni di migranti, chiamata a trovare unità tra mille differenze e a sperimentare forme di convivenza con l’islam.