In mezzo secolo di presenza nel Paese asiatico, l’Istituto ha dovuto affrontare molte situazioni difficili, oltre al martirio di tre sacerdoti. Ma le sfide della missione continuano lungo nuove linee di frontiera
Nell’immaginario collettivo le Filippine sono un Paese cattolico; anzi, le statistiche lo additano come il più cattolico dell’Asia (l’85% della popolazione è battezzata). Rappresentano anche il Paese da cui provengono molte badanti, dolci e sorridenti, tant’è che “filippina” è diventato sinonimo di collaboratrice domestica. L’equazione, dunque, vorrebbe che si trattasse di un Paese “facile” dal punto di vista missionario.
La verità è che le Filippine sono sì un Paese a larghissima maggioranza cattolico, ma nel Sud esiste una presenza musulmana consistente, tentata da un crescente fondamentalismo. Quanto al sorriso, se abbonda sui volti dei filippini non è certo perché il loro possa definirsi un Paese tranquillo. Il ritorno alla vita democratica data dal 1986, con la caduta del dittatore Ferdinand Marcos, grazie a quella che venne chiamata la “Rivoluzione dei rosari”. Tuttavia, anche oggi, a più di trent’anni di distanza, dopo una serie di figure politiche tutt’altro che memorabili (dall’ex attore Joseph Estrada al pugile Manny Pacquiao), le Filippine si stanno di nuovo misurando con un altro personaggio inquietante: il presidente-padrone Rodrigo Duterte.
La stessa storia del Pime in questo Paese – giunta quest’anno al giro di boa del mezzo secolo – conferma che quel contesto non è per nulla semplice e, anzi, è missionario da tutti i punti di vista: lo attesta il fatto che, nei cinquant’anni trascorsi, l’Istituto ha visto sacerdoti espulsi, vocazioni in crisi e, soprattutto, il martirio di ben tre preti nell’arco di un trentennio: Tullio Favali (1985), Salvatore Carzedda (1992) e Fausto Tentorio (2011).
La missione Pime nelle Filippine è certamente interessante (e fors’anche paradigmatica dell’avventura missionaria ad gentes) se la si legge come una serie continua di tentativi, condotti dall’Istituto nel suo insieme e dai singoli membri, di rispondere alle circostanze in modo da essere il più possibile aderenti agli appelli della storia. In ultima istanza, un esercizio costante, personale e comunitario, di discernimento della volontà di Dio. Un esercizio tutt’altro che semplice: tra tutte le missioni del Pime, è forse una di quelle che ha conosciuto il maggior numero di insuccessi, di “cambiamenti di strategia”, in ragione di una situazione complessa e fluida al tempo stesso, segnata da vari fattori problematici, in cima ai quali stanno la spinosa questione dell’autonomia politica di Mindanao (storicamente l’area dove il Pime ha lavorato e lavora con maggiore presenza di uomini), il progressivo irrigidimento in senso fondamentalista dell’islam locale e la lotta, che continua da mezzo secolo, tra i “ribelli” di sinistra del New People’s Army (Npa) e il governo centrale di Manila.
Difficile contare il numero esatto dei missionari Pime che, in terra filippina, sono stati rapiti (come nel caso di Luciano Benedetti nel 1998 e di Giancarlo Bossi – foto d’apertura – nel 2007) oppure minacciati di morte o, ancora, costretti a cambiare residenza per un tempo più o meno lungo. Dal momento, però, che l’esperienza del fallimento e della docilità a una storia che solo Dio può davvero governare è parte integrante della vicenda missionaria in quanto tale, possiamo affermare che la storia del Pime nelle Filippine risulta bella e appassionante, ancorché complessa, proprio se letta con gli occhi della fede.
Oggi i missionari impegnati nel Paese sono 16, più della metà dei quali sopra i 60 anni di età. La presenza dell’Istituto si concentra in due aree: Manila e dintorni e Mindanao, la grande isola a Sud, dove il Pime è attivo prevalentemente in area rurale. A Manila, la parrocchia di Paranaque, intitolata a Maria Regina degli apostoli, è guidata da padre Gianni Sandalo; dal primo settembre, gli subentra padre Simone Caelli, che sin qui ha ricoperto vari incarichi, nella formazione e nella pastorale. Nella stessa parrocchia opera padre Sundeep Pulidindi, indiano, arrivato da pochi mesi nel Paese, e ancora impegnato nello studio della lingua tagalog. Nella casa regionale della capitale risiedono, collaborando con la parrocchia, i padri Gianni Re, superiore regionale per due mandati (2009-2017) e Sandro Brambilla, a lungo attivo in Mindanao. Da un paio d’anni, poi, padre Giuseppe Carrara ha iniziato a lavorare nella diocesi di Imus, a sud di quella di Manila-Paranaque, dove ormai si sta espandendo la capitale.
Se ci spostiamo nell’area di Mindanao, padre Sebastiano D’Ambra è impegnato nel dialogo interreligioso, con il “Silsilah” a Zamboanga. Padre Nevio Viganò è stato per lunghi anni parroco di Sinunuc (nei pressi di Zamboanga), avendo come assistente il bengalese padre Biplob Lazarus Mollick, che prenderà il suo posto tra qualche mese. Anche il superiore regionale, padre Fernando Milani, risiede a Zamboanga, con impegni pastorali in seminario e nelle parrocchie vicine.
Nella diocesi di Ipil (confinante con quella di Zamboanga) il Pime opera a Sampoli, con i padri brasiliani Emerson Gazetta e Paulo Cezar Dos Santos, il quale però è stato richiesto dal vescovo per iniziare una nuova presenza alla periferia della città di Ipil.
A Lakewood sono attivi i padri Stefano Mosca e Ilario Trobbiani. Sempre a Mindanao, ma geograficamente distante dalle località appena citate, nella diocesi di Kidapawan, risiede padre Peter Geremia, che lavora da sempre tra i tribali e con i detenuti.
Nel corso degli ultimi decenni alcuni missionari del Pime hanno lavorato anche in altre aree, come la diocesi di Antique e il vicariato di Mindoro Occidentale, nel tentativo di trovare alternative al delicatissimo contesto di Mindanao, dove sono rimasti gli unici europei presenti (gli oblati di Maria Immacolata e i clarettiani, infatti, hanno pressoché solo personale locale). Ma tali presenze non si sono consolidate nel tempo.
Lungo i cinquant’anni di storia Pime nelle Filippine, comunque, al di là delle diverse situazioni contingenti, è possibile rintracciare un filo rosso costante che si dipana in tre direzioni. La prima è l’attività pastorale che, rispondendo alle richieste della Chiesa locale, ha sempre cercato di prediligere le situazioni più povere e le comunità più isolate geograficamente. A ciò si è affiancato un impegno nel dialogo con l’islam, soprattutto ma non esclusivamente – basti citare il lungo e silenzioso lavoro di padre Vincenzo Bruno – attraverso l’esperienza ben nota ai lettori di Mondo e Missione del “Silsilah”. Infine, ma non meno importante, la dedizione alla causa dei tribali, la lotta in difesa dei loro diritti e delle loro terre. In una parola: in un Paese cattolico per tradizione antica, che oggi conta circa seimila preti diocesani, il Pime ha sempre cercato (e tuttora cerca) di collocarsi in quei contesti di frontiera che tipicamente gli si addicono, in quanto istituto missionario ad gentes.
È stato così fin dall’inizio, a partire dal fatidico 1968, quando i primi “pimini” sono sbarcati nelle Filippine. Rifiutata la direzione del seminario minore di San Pablo (incarico considerato poco “missionario”), hanno assunto la conduzione della parrocchia di Santa Cruz nonché l’impegno nel distretto missionario di Siocon, nella diocesi di Dipolog e, di lì a poco, l’impegno a Tondo (Manila).
Anche se l’impegno pastorale richiesto all’Istituto era per tanti versi simile a quello tipico dei preti diocesani, il Pime ha cercato di svilupparlo con tratti autenticamente missionari e con uno spirito innovativo. I missionari, infatti, hanno portato un contributo che, al netto di errori e tensioni, è stato determinante perché la Chiesa filippina assorbisse la lezione del Vaticano II e la incarnasse, in un contesto segnato da una radicata devozione popolare a volte prigioniera dell’esteriorità. Come ha scritto anche padre Piero Gheddo, «la storia ha dimostrato che la linea scelta dal Pime nelle Filippine, sia al Nord (Tondo e Santa Cruz) che al Sud, ha avuto il grande merito di svegliare una Chiesa ancora tradizionalista, compresi vescovi, sacerdoti e religiosi» (crf. pp. 10-11).
Ma come c’è finito il Pime nelle Filippine? L’interesse dell’Istituto per questo Paese nasce per iniziativa di un sacerdote canossiano di Cremona, missionario nell’isola di Samar, padre Angelo Saverio Zanesi. Nel 1966, aveva sollecitato il superiore generale mons. Aristide Pirovano a inviare dei missionari nelle Filippine, visto che nello stesso periodo molti padri venivano espulsi dalla Birmania. Pirovano, nel gennaio 1967 mentre è in viaggio a Hong Kong, visita le Filippine e l’anno dopo comunica al nunzio, mons. Carmine Rocco, la disponibilità del Pime ad accettare le proposte di impegno missionario. I primi ad arrivare il 6 dicembre 1968 sono i padri Pietro Bonaldo (già missionario a Hong Kong, capo missione), Egidio Biffi (già missionario in Birmania), Pio Signò (espulso dalla Cina), Joseph Vancio (statunitense) e fratel Giovanni Arici.
Conclusasi traumaticamente la prima esperienza a Manila, negli anni successivi l’Istituto concentra la propria presenza a Mindanao: Siocon, Sibuco e Sirawai (con i padri Biffi, Di Guardo e Biancat) sono le prime destinazioni dei membri Pime. A partire dagli anni Ottanta, prende il via anche il lavoro in diocesi di Kidapawan, a Tulunan, Columbio e nell’Arakan Valley.
Nel 1981 comincia l’attività missionaria in quella che allora era la prelatura di Ipil (oggi diocesi). Le prime parrocchie sono quelle di Kumalarang e Siay. In questa zona, nel corso degli anni, l’Istituto ha fondato tre nuove parrocchie: Lakewood, Payao e Sampoli. Nel 1984 decolla l’esperienza del movimento “Silsilah”, che, oltre al fondatore, vedrà la presenza e la collaborazione di padre Salvatore Carzedda e, per alcuni anni, di padre Paolo Nicelli.
A metà degli anni Ottanta, il Pime si misura con nuove sfide, su tutte quella della realtà urbana in una metropoli come Manila. L’esigenza di avere un “punto di appoggio” nella capitale, nei pressi dell’aeroporto, offre ai missionari la possibilità di aprire una presenza a Paranaque, parrocchia urbana di Manila: i pionieri sono i padri Giulio Mariani e Gianni Sandalo nel 1985. Di lì ad alcuni anni, sempre in tema di nuove sfide, tocca a padre Marco Brioschi, che aveva lavorato a Taiwan con i migranti, provare a farsi carico di un’emergenza sociale (quasi il 10% della popolazione filippina lavora all’estero) verso la quale la Chiesa cattolica locale ha manifestato un’attenzione via via crescente.
Ripercorrendo il mezzo secolo di missione del Pime nelle Filippine, non si possono dimenticare due importanti iniziative nel campo della formazione: l’attivazione, a Zamboanga, dal 1992 al 2011, del centro “Euntes”, apprezzato luogo di formazione missionaria per le Chiese d’Asia, presso il quale hanno operato soprattutto i padri Corba, Bruni e Mariani, e il seminario internazionale, aperto a Tagaytay, nei pressi di Manila, chiuso definitivamente nel 2013.