Missionario del Pime, mons. Giuseppe Negri è vescovo di Santo Amaro nell’immensa periferia di San Paolo in Brasile: «La droga sta sterminando i nostri giovani. La missione qui? Ricostruire relazioni»
Una cattedra episcopale in mezzo a 500 chilometri quadrati di favelas. Pastore di un’umanità che si sposta nella grande metropoli da 23 milioni di abitanti e – dalla periferia – ne vive oggi le fatiche e le contraddizioni. Dal 2015 mons. Giuseppe Negri – milanese, missionario del Pime – è il vescovo di Santo Amaro, la diocesi della grande periferia sud di San Paolo. Una diocesi tra le più grandi del Brasile, con i suoi tre milioni e mezzo di abitanti in una delle zone più povere. «Qui i numeri sono tutti enormi. Su 112 parrocchie giusto cinque o sei, le più vicine al centro, sono abitate da famiglie di una classe sociale medio alta; le altre si trovano nelle nostre 300 favelas. E abbiamo anche parrocchie da 150 mila abitanti…».
Monsignor Negri, il Brasile sta vivendo una crisi sociale e politica molto dura. Come si guarda a tutto questo dalla periferia di San Paolo?
«Gli effetti li stiamo sentendo molto forti, soprattutto dal punto di vista della disoccupazione. Gli impiegati, le domestiche, la manodopera della grande città vivono in queste favelas; abbiamo gente che parte da casa alle 3 e mezzo del mattino e torna a mezzanotte. La crisi è molto sentita in questa parte della città perché ci sono più poveri e questa oggi è una sfida pastorale. Un po’ alla volta stiamo assistendo a un nuovo sradicamento: la gente si sposta da una parte all’altra della metropoli, in cerca del lavoro. Tenete presente che per il 90% sono già persone venute dal Nord-Est e dal Minas Gerais, le aree più povere del Brasile, per cui si tratta di un nuovo sradicamento. Erano venuti a San Paolo in cerca di impiego e adesso lo hanno perso. Di qui la grande mobilità, qualcuno ritorna addirittura al paese da dove è venuto. Chi rimane soffre e il miracolo più grande oggi nelle nostre favelas è riuscire ogni giorno a trovare da mangiare: il degrado è davvero grande».
Quali risposte a questa situazione?
«Le nuove offerte spirituali – cristiane e non cristiane – si propongono di ridare speranza. Ma ci sono anche tante false risposte: la criminalità organizzata fa affari d’oro con la droga, la prostituzione, l’alcol. Soprattutto la droga sta sterminando i nostri giovani. Anche per questo, di fronte alla proposta del Papa del Sinodo dei giovani, abbiamo scelto come diocesi di dedicare loro due anni, questo e il prossimo. Cerchiamo di offrire loro una nuova opportunità anzitutto per credere in se stessi e nei valori che portano, perché le proposte che la società oggi offre loro sono degradanti».
E voi invece cosa proponete?
«Cerchiamo di offrire qualcosa di positivo partendo dai tanti giovani che comunque gravitano intorno alle nostre parrocchie. I missionari del Verbo Incarnato, per esempio, hanno messo in piedi degli oratori con i centri sportivi e di aggregazione. Funziona, stanno facendo meraviglie. In tutte e undici le foranie stiamo organizzando incontri: parliamo della teologia del corpo, del valore della vita, delle cose che possano aiutarli a capire un modo bello di vivere la propria vita che non sia la droga. È la nostra sfida maggiore oggi: toglierli da questa piaga che li sta sterminando a migliaia nelle favelas. Ogni giorno ci sono morti, omicidi, rapine a causa della droga, le carceri sono piene di giovani. Anch’io mi sto impegnando in prima persona: andando incontro ai giovani sto cercando di copiare il caro cardinale Carlo Maria Martini, che mi ordinò sacerdote. Una sera al mese mi incontro con loro in una forania: parliamo dei loro problemi, mangiamo una pizza insieme. Per loro è una novità: non avrebbero mai immaginato di incontrare un vescovo così da vicino…».
Diceva che comunque nelle parrocchie si incontrano ancora molti giovani. Come mai, nonostante tanto degrado, questo legame resta?
«C’è sotto la forza della religiosità popolare, trasmessa loro dai genitori. Le famiglie del Minas Gerais e del Nord-Est sono tra le più religiose qui in Brasile. Va aggiunto poi che in diocesi ci sono bravi sacerdoti che li sanno coinvolgere anche da un punto di vista comunicativo. In ogni caso, per quanto appaiano numerosi in parrocchia, rimane ugualmente la domanda su tutti quelli che non riusciamo a raggiungere. Che in zone così popolose sono comunque tanti».
Anche in Brasile è dolorosa la questione delle famiglie ferite a causa delle separazioni. Come è stata accolta a Santo Amaro l’esortazione apostolica Amoris Laetitia?
«Con la consapevolezza che sarà un cammino lungo e non manca nemmeno un po’ di confusione. Però stiamo cercando di aprire le nostre porte come ci invita a fare il Papa. Certo, i pregiudizi nei confronti dei divorziati risposati non si cancellano da un momento all’altro. Ma ci stiamo provando; ripeto spesso al nostro clero che dobbiamo comunque accogliere e far sentire queste persone parte della comunità. Ma le resistenze ci sono. Lo sforzo su cui stiamo concentrando maggiormente le energie è quello di dare vita a una vera pastorale famigliare: in tutte le realtà dove ci sono le parrocchie cerchiamo di valorizzare la preparazione al matrimonio, l’accoglienza dei fidanzati, il periodo subito dopo le nozze. Curare tutti e tre questi momenti. Anche perché nelle visite pastorali sono rimasto atterrito nel constatare come il numero dei matrimoni stia calando drasticamente anche qui. È un trend iniziato da pochi anni ma i numeri sono già significativi. Ci chiediamo: che cosa sta mancando da parte nostra? Proprio per questo l’anno scorso abbiamo impostato tutta l’attività dell’anno sulla famiglia».
E quali frutti ha portato questo impegno?
«Il segno più bello che l’Anno santo della Misericordia ha lasciato in eredità alla diocesi di Santo Amaro è stata l’apertura del tribunale ecclesiastico: in un anno ha già preso in carico 300 casi. Ma non solo per dirimere le cause di nullità matrimoniale; svolge anche il compito di centro di ascolto. È a disposizione delle famiglie che hanno bisogno di confrontarsi, di essere accompagnate, magari anche con una psicoterapia. E sono centri con persone ben formate, che possono aiutare a rivedere il proprio cammino, sempre con la presenza di un sacerdote. Credo che sia veramente il frutto della riflessione che il Papa ci ha aiutato a compiere. E le conseguenze si vedono: per esempio nelle parrocchie cominciano a riapparire le famiglie con i loro figli».
Lei è vescovo anche di alcune parrocchie dove sono presenti i missionari del Pime. Che doni porta il loro servizio alla diocesi?
«Sono tre oggi queste parrocchie: una è propriamente del Pime, ma anche le altre due sono guidate da nostri confratelli. La parrocchia San Francesco Saverio è una tra le più antiche della nostra diocesi, si trova in una zona di periferia con almeno 60 mila abitanti. Sta diventando un modello per le altre perché i padri del Pime qui hanno portato avanti bene il discorso del documento di Aparecida: la parrocchia come rete di comunità. Il nostro problema è sempre quello di arrivare a tutti e allora la soluzione adottata è stata quella di dividere il territorio in settori, più di venti sparsi in tutta la parrocchia. Formano come delle piccole chiese domestiche: hanno le loro catechesi, le loro iniziative pastorali. Sogno che tutta la diocesi un giorno possa diventare così. Perché solo in questo modo si riesce a vincere l’anonimato che esiste in queste favelas. Si esce alla mattina, si torna alla sera: mancano le relazioni, non ci sono legami tra le persone e tra loro e la Chiesa. Lo stile che ci suggerisce Papa Francesco, invece, è l’opposto: la pastorale come una cultura dell’incontro, della comunione. I settori la favoriscono perché poi dalle periferie si arriva al centro della parrocchia dove c’è un lavoro di formazione, di preparazione, per ritornare poi nella propria periferia».
E le altre due parrocchie?
«Quella di Santa Chiara e San Francesco è il risultato del lavoro svolto per tanti anni da padre Maurilio Maritano; adesso c’è padre Bosco Suresh Kumar, un missionario indiano. Si tratta di una delle parrocchie più povere che abbiamo nella nostra diocesi e si inserisce in un contesto di favelas. Il sacerdote cerca di vivere questo contatto con le persone, un lavoro sociale; ha anche un asilo per bambini. Infine, padre Daniele Belussi sta lavorando a Nostra Signora degli Angeli, in un’altra area tra le più povere. Da grande missionario, però, è andato a scoprire un’altra zona vicina dove si sono insediate cinquemila famiglie. Si tratta di un’area di cui non si occupa nessuno. Padre Daniele ha cominciato a visitarla: l’anno scorso, il giorno di Natale, ho celebrato la prima Messa in questo insediamento e sta facendo un lavoro molto bello. Ci sono più di 400 bambini e tanta gente abbandonata a se stessa, anche dalla politica. Lui sta cercando di entrare e questo lavoro aiuta molto anche la sua parrocchia a sentirsi missionaria. Sono poveri, ma sanno che c’è gente ancora più povera di loro. Così i giovani hanno iniziato ad accompagnarlo: è un lavoro missionario molto bello».
In Brasile dal 1987
Dom José Negri – come lo chiamano a Santo Amaro – è nato a Milano nel 1959. Missionario del Pime in Brasile dal 1987, ha svolto molti anni del suo ministero nella formazione dei nuovi sacerdoti oltre che in una parrocchia dell’arcidiocesi di Florianopolis. Proprio qui è diventato vescovo ausiliare nel 2005, prima di essere chiamato nel 2009 alla guida della diocesi di Blumenau. Nel 2015, infine, Papa Francesco l’ha chiamato a diventare il vescovo della popolosa Santo Amaro.