AL DI LA’ DEL MEKONG
Le nostre vite sono per l’amore

Le nostre vite sono per l’amore

Ha ragione Roland Barthes quando, in Frammenti di un discorso amoroso, fa intendere che ormai a molti di noi rimangono solo le superfici epidermiche delle proprie vite

Qualche tempo fa mi trovavo a Phnom Penh in visita alle suore salesiane in compagnia di un confratello. Rientrando a casa, dopo il tramonto del sole e ormai avvolti dal buio della notte, abbiamo voluto percorrere una strada nota per essere piena di night club e bar piuttosto ambigui. Percorrendo quella via in auto notavamo a destra e a sinistra decine di locali con luci sfavillanti, ammiccanti e convincenti, premesse per una notte in compagnia. All’ingresso di ciascun locale, poi, si notavano decine di ragazze sedute e sorridenti, che schierate su due file a destra e a sinistra formavano un corridoio per dare il benvenuto e il privilegio della scelta all’ospite di turno. I loro abiti succinti mostravano quello che avrebbero dovuto nascondere, disponendo il cliente a prestazioni successive. Nel passare oltre, ci siamo sentiti imbarazzati, incapaci di fare qualcosa per aiutare quelle persone in una simile realtà.

Non sarei partito da questa scena – così surreale per noi, ma normale per tutte quelle giovani donne -, se a questo punto della nostra lettura della Lettera ai Galati l’apostolo Paolo non si fosse dilungato con una lista piuttosto dettagliata sulle «opere della carne», a tutti «ben note» e da evitare: «fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere» (Gal 5,19-21). Siamo alle battute finali della lettera, le più dure e inclementi, ma senza dubbio coerenti con tutto lo sviluppo precedente. «Quelli che sono di Cristo – scrive l’apostolo appena dopo questo elenco – hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal 5,24) e poco resta per quei passatempi.

È strano che Paolo, dopo aver preso le distanze dalla legge, improvvisamente scenda in campo con una lista di azioni da contrastare a tutti costi, imponendo a sua volta una legge che a prima vista sembra ben più dura delle precedenti. Se da una parte, infatti, alle norme e ai precetti di Israele Paolo aveva sempre preferito lo Spirito di Cristo, nondimeno sente impellente l’esigenza di mettere nero su bianco quello che tra noi, nelle nostre relazioni di giorno e di notte, si contrappone a Cristo, e amore non è. Qui, come ovunque lungo la lettera, la posta in gioco è sempre la stessa: quella misura che Cristo ci ha rivelato nello scandalo della croce e che non viene dalla carne, ma dalla grazia. Perché «la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne» (5,17).

Poco prima l’apostolo aveva raccomandato ai Galati il solo precetto dell’amore al prossimo come pienezza di tutta la legge (5,14). Tutto il resto è «carne».

Ci sembra superfluo ribadire che «carne» per Paolo non significa la dimensione corporea della nostra vita, sempre positiva e gradita a Dio. Per «carne» l’apostolo intende piuttosto il possesso, il potere sulla propria vita e sulle vite degli altri, l’uso e l’abuso dei corpi, delle emozioni e dei sentimenti, per un piacere fine a se stesso, egolatrico e mortifero. Sono d’accordo con coloro che definiscono il vizio “una ricerca malata di infinito” ma, quando ha il sopravvento, gli uomini cominciano a farsi del male, e quasi sempre superano i limiti senza più ritorno. Paolo lo sa e avverte: «se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri» (5,15).

Le nostre vite, nella visione dell’apostolo, non sono per la menzogna, per le inimicizie, le discordie, le impudicizie, ma per l’amore secondo Dio. Cadere nel vizio significa dimenticare che «le creature sono Tue, Signore», come scrive la poetessa Donata Doni, che continua, quasi cercando un riparo: «Abbi pietà dei nostri occhi / che le guardano / della nostra carne / che le desidera / del nostro orgoglio che le seduce».

Lo scopo di queste battute finali della Lettera ai Galati è quello di custodire nei cristiani la misura dell’amore di Cristo. Non tanto una legge, rituale o morale che sia, ma la possibilità di conoscere Lui, la potenza della Sua vita risorta, ben più ampia e affascinante della circoncisione o della non-circoncisione e di tutte quelle cose che, pur abbaglianti e calde, non sono amore. Anche una vita senza eccessi, ordinaria e conformista, può portare con sé menzogne e ipocrisie. L’eccessiva burocratizzazione dei legami sociali, tipica dei contesti urbani, la banalità e la solitudine che ne derivano, spesso incoraggiano la regressione di ogni possibile relazione umana alla sola dimensione erotica, o anche solo allusivamente erotica, fino a fare dell’amore una forma di possesso. Giunti però a questo punto potremmo continuare imperterriti, oppure ammettere che il potere sui nostri corpi e dei nostri corpi non basta più.

Ha ragione Roland Barthes quando, in Frammenti di un discorso amoroso, fa intendere che ormai a molti di noi rimangono solo le superfici epidermiche delle proprie vite… e sembriamo come quegli amanti che frugano nei loro corpi per sapere che cos’è l’amore, simili a un bambino che smonta un orologio per capire che cosa è il tempo. Ma l’amore, come il tempo, sempre ci sfugge. E rimane quello che amore non è.