Terrorismo, scontri interetnici, instabilità politica, cambiamenti climatici: tutta la regione del Sahel sino al bacino del lago Ciad sta vivendo oggi una situazione esplosiva e una grave emergenza umanitaria
«Prevenire i rischi di derive presenti in altri Paesi in un contesto regionale segnato dallo sviluppo di tendenze religiose fondamentaliste ed estremiste». Avrebbe dovuto essere questo l’obiettivo del progetto di legge approvato dal Consiglio dei ministri del Niger lo scorso aprile. Un tentativo di dare allo Stato la possibilità di «controllare le pratiche che riguardano la sfera religiosa». Ma se questo progetto ha messo in allarme i pochissimi cristiani presenti nel Paese (circa l’1%), ha sollevato soprattutto le proteste di alcuni musulmani. L’imam di Maradi, cheick Rayadoune, in particolare, lo ha definito «anti-islam». Risultato, l’imam è stato arrestato e i suoi adepti, per ritorsione, hanno attaccato e messo a fuoco la chiesa protestante del quartiere di Zaria.
L’episodio è accaduto a metà giugno ed è sintomatico di come oggi in Niger – come pure in Nigeria, Mali, Burkina Faso e più complessivamente in tutta l’area del Sahel – le questioni religiose siano divenute particolarmente “sensibili” anche perché si sono intrecciate – o meglio – sono state strumentalizzate da correnti fondamentaliste, gruppi jihadisti (influenzati, finanziati e armati anche dall’esterno), politici senza scrupoli, trafficanti di merci e di uomini, criminali e banditi, ma anche da gruppi di autodifesa che fanno riferimento a etnie o a popolazioni di pastori o di agricoltori.
E a complicare e aggravare il tutto, si sono aggiunti pure i cambiamenti climatici che contribuiscono a provocare milioni di profughi e una crisi umanitaria gravissima specialmente nel bacino del lago Ciad. Una stratificazione, insomma, di cause e concause che si sono accumulate nel tempo, facendo del Sahel una delle regioni più “esplosive” d’Africa, con “contaminazioni” su un’area ancora più vasta.
Ma quali sono oggi i livelli e le dimensioni della crisi saheliana? Innanzitutto, la galassia del jihadismo si è addensata di nuovi gruppi e sigle, talvolta piuttosto fluidi e intersecabili. La guerra d’Algeria prima e la caduta di Gheddafi poi hanno certamente contribuito a questa espansione a sud del Sahara.
Diversi movimenti, nati da costole di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), sono presenti oggi in vaste aree del Mali e operano in Burkina Faso e Niger. Nel frattempo è cresciuta la minaccia terroristica dello Stato islamico nel Grande Sahara (Isgs), guidato da Adnan al-Sahrawi, ex portavoce del Movimento per l’unicità e la Jihad in Africa Occidentale (Mujao) che si è espanso ai confini di Burkina Faso, Niger, Benin, Togo e Ghana. Ma sono aumentati anche gli attacchi di Ansar al-Islam, che sarebbe responsabile dei recenti attentati contro luoghi di culto cristiani in Burkina Faso: il 12 maggio a Dablo, nel Nord del Paese, i terroristi hanno assalito una chiesa e ucciso il parroco e cinque fedeli; il giorno successivo, a Singa, nella stessa regione, hanno attaccato una processione mariana; il 28 aprile, erano stati uccisi un pastore protestante e cinque cristiani in un attacco alla chiesa di Silgadji; il 27 giugno sono stati trucidati quattro cattolici nel villagio di Bani. Ansar al-Islam avrebbe legami anche con il Jama’at nusrat al islam wal muslimin (Gruppo per l’affermazione dell’islam e dei musulmani, Jnim), nato nel marzo del 2017 dall’unione di diverse milizie salafite dell’orbita qaedista. Il suo leader, Iyad Ag Ghali – che ora millanta mire jihadiste transnazionali – è un personaggio noto nella regione: tuareg del Mali, aveva fatto parte del Movimento popolare dell’Azawad negli anni Novanta e dal 2012 è alla guida del gruppo terroristico Ansar Dine protagonista dell’ennesima insurrezione nel Nord del Mali, ma anche dell’assalto all’hotel Radisson Blu di Bamako nel novembre 2015 con 170 prese in ostaggio.
«I gruppi affiliati allo Stato islamico o ad Al Qaeda – si legge in un recente report dell’Institute for Security Studies – nonostante collaborino quando affrontano un nemico comune, sono anche in competizione e hanno bisogno di nuove comunità in cui incorporarsi. I gruppi estremisti violenti spesso si infiltrano negli spazi in cui il contratto sociale tra Stato e cittadini è debole o inesistente. Cooperano con altri gruppi criminali come minatori d’oro illegali, bracconieri o trafficanti, che hanno a loro volta interesse a mantenere l’assenza dello Stato o a indebolirla».
Questa dinamica è ben evidente nel Nord della Nigeria dove, anche all’interno del gruppo terroristico Boko Haram, sarebbero presenti diverse anime o correnti: una farebbe riferimento allo storico leader Abubakar Shekau; l’altra, allo Stato islamico in Africa occidentale. L’intensificarsi di attacchi nel bacino del lago Ciad nonché l’ulteriore radicalizzazione del gruppo testimonierebbero di un riavvicinamento delle due fazioni. Ne sono tragica testimonianza i ripetuti attentati suicidi, come è successo domenica 16 giugno, a una quarantina di chilometri da Maiduguri, capitale del Borno State: tre ragazzini kamikaze – due femmine e un maschio – hanno provocato una strage tra il pubblico che assisteva alla proiezione di una partita di calcio, uccidendo 30 persone e ferendone una quarantina.
Nonostante i proclami del presidente nigeriano Muhammad Buhari, Boko Haram continua a rappresentare un serio pericolo per il Nord-est del Paese, ma anche per la zona di Diffa, al di là del confine con il Niger (dove anche i pochi cristiani ricevono minacce) e per l’Estremo Nord del Camerun, dove opera fratel Fabio Mussi del Pime e dove, anche recentemente, ci sono stati diversi attacchi che hanno provocato decine di morti. La minaccia si estende ormai anche a Ciad, Repubblica Centrafricana e Benin.
Eppure, se si guarda al numero di morti, non sono i terroristi di Boko Haram a vincere la macabra sfida: nel corso del 2018, infatti, sono state uccise in Nigeria – secondo Amnesty International – oltre 3.500 persone negli scontri tra pastori e coltivatori, una piaga ormai diffusa in 22 dei 36 Stati di cui si compone la Federazione nigeriana. Anche in questo caso, si tratta di un fenomeno che ha radici antiche, e che si è esacerbato in questi ultimi anni, incrociando altre situazioni: cambiamenti climatici, afflusso massiccio di armi, strumentalizzazioni dei politici, manipolazione della dimensione etnico-religiosa, presenza jihadista.
In Nigeria, il fenomeno è particolarmente drammatico nella cosiddetta Middle Belt, la fascia centrale del Paese. Il fatto che i pastori di etnia fulani siano musulmani e gli agricoltori siano prevalentemente cristiani ha aggiunto una dimensione religiosa a un conflitto atavico che oggi pare ancora più difficile da districare, anche perché pastori e agricoltori si sono nel frattempo pesantemente armati o organizzati in gruppi di autodifesa.
È quanto sta accadendo anche in Mali, dove negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli assalti reciproci tra fulani e dogon. I primi – accusati di sostenere i miliziani jihadisti – sono stati massacrati lo scorso 24 marzo nel villaggio di Ogssagou, dove sono state uccise 160 persone. La vendetta non si è fatta troppo attendere e, nella notte di domenica 9 giugno, un gruppo di pastori ha assalito un villaggio dogon nei pressi della falesia di Bandiagara, incendiando le abitazioni e provocando un centinaio di morti.
Ma questa “crisi pastorale” ha una dimensione regionale più vasta. Le tradizionali migrazioni transfrontaliere delle mandrie, infatti, sono state ostacolate dalle situazioni di insicurezza che riguardano l’intera area saheliana. Questo è evidente nel rettangolo a cavallo tra Mali, Burkina Faso e Niger, nella regione del Liptalo-Gourma, e ancor di più nella zona del lago Ciad.
Da tutto ciò traggono vantaggio sia i gruppi criminali o mafiosi che si sono moltiplicati con la caduta di Gheddafi in Libia e che si dedicano a varie forme di traffici (particolarmente droga, armi, tabacco ed esseri umani), sia i jihadisti che, secondo l’Institute for Security Studies, infiltrano «le comunità attraverso la cooptazione, la coercizione o uccidendo i leader locali. Gli estremisti approfittano dei conflitti intra o inter comunitari per il loro reclutamento». Chi ci perde, invece, è sempre la popolazione inerme. Che è presa tra molti fuochi. E che sempre di più deve fare i conti con ripetute e devastanti siccità. Se ne sono accorti persino i “grandi” del World Economic Forum che ne hanno discusso a Davos lo scorso gennaio. Dopo la gravissima crisi alimentare del 2012, ancora oggi diversi milioni di persone sono a rischio-fame in una regione dove le temperature crescono più che in qualsiasi altra parte del mondo: secondo l’Onu, l’80% dei terreni agricoli è degradato e oltre 50 milioni di persone vivono esclusivamente di allevamento con grosse difficoltà, come si diceva, ad accedere ai pascoli, senza contare la situazione di grande vulnerabilità dei milioni di sfollati e profughi.
Di fronte a una situazione così catastrofica, le misure prese sinora appaiono tutt’altro che efficaci. La comunità internazionale sta investendo molto soprattutto sul piano militare, ma anche in operazioni mirate a fermare i migranti. Interventi militari nazionali, regionali (ad esempio il G5 Sahel, che coinvolge Mali, Burkina Faso, Mauritania, Ciad e Niger, o Ecowas), dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite, ma pure quello solitario della Francia, non stanno dando risultati significativi anche perché talvolta sono in contrasto o in concorrenza tra di loro. Così come sul piano umanitario le azioni messe in campo non sono adeguate rispetto alla drammaticità della situazione. Intanto, però, la crisi – con tutte le sue componenti – rischia di dilagare ben al di là del Sahel. MM
L’IMPEGNO DELLE CARITAS
Dopo la grave crisi alimentare del 2005, Caritas Internationalis ha costituito, nel novembre 2006, uno specifico Gruppo di lavoro per il Sahel, che coinvolge le Caritas di Mali, Capo Verde, Niger, Burkina Faso, Senegal, Ciad, Mauritania e Guinea Bissau. Sin dalla fondazione, il Gruppo si incontra una volta all’anno per fare il punto della situazione e programmare gli interventi soprattutto di risposta alle emergenze. Dal 2016, sono state messe a punto nuove linee guida proprio a causa del deterioramento delle condizioni di sicurezza di molti Stati, a cominciare dal Burkina Faso. «Questo Paese sino a poco tempo fa era molto tranquillo – spiega Alessandra Arcidiacono, Emergency Response Officer di Caritas Internationalis -; l’instabilità socio-politica e l’aumento del numero di sfollati hanno avuto ripercussioni molto negative anche sulla sicurezza alimentare. In altri Paesi del Sahel, invece, la situazione di quest’anno, dal punto di vista della campagna agricola, sembra migliore rispetto al 2018, quando circa 10 milioni di persone erano a rischio-fame».
Attualmente, uno dei programmi più consistenti riguarda proprio il Burkina Faso. Qui, la Caritas nazionale ha lanciato un appello a fine marzo per un’emergenza legata a migliaia di sfollati che sono stati costretti a lasciare le loro case a seguito di diversi attentati.
In Niger, invece, la Caritas è molto attiva, già dal 2015, specialmente nella zona di Diffa, dove continuano gli attacchi di Boko Haram. Qui il livello di vulnerabilità delle popolazioni è molto alto e riguarda sia gli sfollati interni, sia i profughi provenienti dalla Nigeria, sia le famiglie locali che li accolgono. Caritas aiuta tutti, per un totale di 1.500 famiglie, oltre ad assistere 200 bambini non scolarizzati in due centri ricreativi, 500 donne con attività generatrici di reddito e un gruppo di giovani per evitare il rischio di arruolamento nei gruppi terroristici.
In Mauritania, invece, sono attivi programmi non solo di emergenza, ma anche di sviluppo per rafforzare la resilienza delle popolazioni locali.
«Il tema della mobilità umana è entrato in maniera molto significativa nelle riflessioni e nelle azioni della Caritas della regione – conferma Arcidiacono -. E infatti, recentemente, il gruppo ha fatto una formazione proprio sulla questione delle migrazioni che tocca i vari aspetti del fenomeno e delle attività delle Caritas: dall’assistenza materiale e sanitaria, ai progetti di integrazione, all’assistenza psicologica e giuridica delle vittime di tratta alle attività di sensibilizzazione e di advocacy presso i governi e la comunità internazionale». (a.p)