La Direzione generale a Milano, il nuovo Centro Pime, l’apertura di una missione in Tunisia: tante novità all’insegna dell’identità dell’Istituto. Parla il superiore generale padre Ferruccio Brambillasca
«Quando dico che la priorità del Pime è andare nei luoghi dove non ci sono cristiani, dove la Chiesa non è ancora presente, dove il Vangelo non è mai stato ascoltato, qualcuno mi chiede: “Ma ci sono ancora posti così?”. Sì, ci sono! E se è vero che la missione può essere anche vicina, il nostro carisma resta quello di partire. Guai se ce ne dimenticassimo!». Padre Ferruccio Brambillasca, noto per il suo aplomb brianzolo-giapponese, si infervora se gli capita di dover ribadire l’importanza della missio ad gentes per l’Istituto di cui è stato confermato alla guida lo scorso maggio. Ma padre Brambillasca, 55 anni, nativo di Agrate Brianza (lo stesso paese del beato Clemente Vismara), sebbene tenga a sottolineare il legame con le radici, non è certo un uomo del passato. Reduce da un’Assemblea generale ricca di novità – tanto per dirne una, è stata approvata l’istituzione di una nuova missione Pime in Tunisia -, si appresta a trasferirsi, insieme alla nuova Direzione generale, a Milano, dopo la chiusura della Casa generalizia di Roma.
Come mai questo “trasloco”?
«Da una parte ci sono delle ragioni pratiche: lo stesso Papa Francesco ci richiama spesso ad avere poche strutture, facilmente gestibili, e anche il Pime ha ritenuto di doversi “alleggerire” un po’, a cominciare dalla Direzione generale. Tuttavia, non è solo un trasloco, ma c’è la volontà di essere una presenza missionaria significativa a Milano e in Lombardia, aprendo questa realtà ad altri mondi. E si tratta, in un certo senso, di un ritorno, viste le origini milanesi dell’Istituto».
Qual è il volto del Pime oggi in Italia?
«Una novità emersa dall’Assemblea generale è stata la decisione di formare un’unica Delegazione centrale nel nostro Paese, che ha sostituito la regione Italia e la Delegazione generalizia: una realtà che gestirà oltre 150 confratelli, quasi un terzo dell’Istituto. Il nostro obiettivo è che questa presenza, numerosa e portatrice di esperienze importanti, possa offrire un respiro missionario alla Chiesa italiana».
Questo è anche lo spirito del nuovo Centro Pime di Milano, che sarà inaugurato a settembre…
«La missione sta cambiando, e il Centro vuole innanzitutto essere un luogo che educhi a questa nuova missione – alla mondialità, all’urbanizzazione, all’apertura ad altri popoli e culture -, in particolare i giovani. Sarà poi un crocevia di missionari che potranno parlare, raccontare le loro storie, i loro sogni, i miracoli che hanno compiuto o a cui hanno assistito. Sono storie che difficilmente, in una grande città, possono essere ascoltate da altri, che svelano realtà poco o per nulla note e che parlano a tutti, dal vescovo all’operaio. Il Centro vuole essere un ponte di solidarietà verso i contesti missionari “lontani”, ma anche verso le tante realtà di povertà e di frontiera vicine a noi».
Che cosa significa, oggi, vivere la missione?
«Innanzitutto significa partire. Guai se si fermasse questo spirito! È il nostro carisma, scritto nero su bianco nelle Costituzioni dell’Istituto. A volte ci si “accomoda”, questa spinta rischia di venire meno, ma si tratta di un elemento imprescindibile. Missione vuol dire anche restare: non si parte per un periodo, per qualche anno, ma per tutta la vita. A volte mi arrabbio con quei padri che non vogliono rientrare in Italia per prestare un servizio qui, però li stimo, perché hanno sposato la loro missione a tempo indeterminato. Ancora, missione vuol dire essere contenti di ciò che si è scelto: una vocazione, non un lavoro, che ci rende realizzati e ci spinge a far fiorire la nostra gioia, a mostrarla. E poi vivere la missione vuol dire sognare: è bello ascoltare questi confratelli che raccontano di veri miracoli, di gente che ha lasciato la violenza per fare un cammino di fede… chi vive questo in prima persona si trasforma in un sognatore».
Il Pime ha da poco vissuto la sua Assemblea generale: quali linee guida sono emerse per orientare il cammino futuro?
«Abbiamo raccolto tante sfide. La prima è quella di riqualificarci come missionari ad gentes: tutto ciò che siamo, ciò che abbiamo – dalle strutture, alla gestione economica, alle scelte sulle presenze missionarie – deve parlare di questo carisma. Che si traduce nell’andare nei luoghi dove non ci sono cristiani, dove la Chiesa non è ancora presente e dove il Vangelo non è mai stato annunciato. Nel concreto, questo per noi non significa solo raggiungere luoghi nuovi, ma riqualificare la nostra presenza in quelli storici, spostandoci nei contesti che si configurino come “ad gentes”. Una seconda priorità emersa è quella della formazione, perché oggi, rispetto al passato, è più difficile essere missionari, partire e poi rimanere nei luoghi a cui si è destinati».
In che senso?
«Un tempo si partiva e non si tornava più, non c’erano più legami con la famiglia e con il contesto d’origine, adesso invece i legami restano molto forti, e questo a volte ci impedisce la necessaria concentrazione sul luogo in cui siamo inviati, sulla lingua, sulla cultura. Non solo. Spesso oggi i vescovi delle diocesi in cui operiamo non ci chiedono solo di fare i parroci ma vogliono da noi un servizio specifico, per cui bisogna essere preparati, soprattutto in quei Paesi dove non possiamo entrare come religiosi: il Myanmar, la Cina, l’India… Questo significa che, dopo dieci anni di formazione per diventare missionari, bisogna aggiungerne altri per ottenere una specializzazione ad hoc: non è facile né immediato. Senza contare che, nei luoghi di missione, capita di trovare chi ti sfida sul senso della tua presenza lì. Ricordo che in Giappone, quando ero arrivato da poco, una persona mi chiese: “Ma che cosa sei venuto a fare qui? Abbiamo tutto, non ci manca niente!”. Se un sacerdote non ha delle motivazioni forti, rischia di vacillare. E non è detto che la collaborazione con le Chiese locali sia semplice: un problema che non si poneva tempo fa, quando, nei luoghi dove andavamo, il clero autoctono non esisteva».
Che cosa la colpisce dei giovani che chiedono di entrare nel Pime?
«Innanzitutto, il fatto stesso che scelgano il Pime, che non è un Istituto “facile”, che non lavora in contesti semplici. Mi colpisce anche che, una volta entrati in seminario, questi giovani difficilmente abbandonino la via intrapresa, anche quando si rendono conto che implica il lasciare tutto, senza sapere dove saranno mandati, e nonostante questo siano sempre sorridenti».
Quanto è importante per voi aprire le porte a nuove vocazioni?
«È un’altra delle sfide emerse dall’Assemblea. Se è vero – come ci ricorda Papa Francesco – che non dobbiamo annunciare il Vangelo solo per aumentare i membri delle nostre congregazioni, resta il fatto che molti giovani, in diverse parti del mondo, ci chiedono di entrare nel nostro Istituto. Il tema dell’animazione vocazionale diventa dunque importante: è necessario operare un adeguato discernimento iniziale e dobbiamo attrezzarci per questo. Come Pime, tendiamo a non cercare vocazioni specifiche per noi: la quantità delle richieste che riceviamo da giovani che aspirano a entrare in seminario è qualcosa a cui non siamo preparati e che esige il nostro impegno».
Un altro tipo di domanda che vi sta interpellando è quella sull’apertura di nuove missioni: come state rispondendo?
«In questi anni abbiamo ricevuto, e continuiamo a ricevere, numerose richieste da diocesi in ogni parte del mondo, dal Paraguay alla Tunisia, dal Mozambico al Senegal, che domandano al Pime la disponibilità ad aprire nuove presenze in questi contesti. Fino a oggi avevamo rifiutato, ma mi ero sempre posto il problema di coscienza se questa linea fosse giusta. E così, nella recente Assemblea, ci siamo interrogati: “Abbiamo 19 missioni nel mondo, forse lo Spirito ci chiede di andare altrove? Magari a costo di lasciare alcune Chiese locali che oggi sono in grado di andare avanti da sole? Dopotutto ci sono ancora luoghi dove la Chiesa deve essere fondata”. Alla fine, la risposta dell’Assemblea è stata: “Lasciamoci guidare dallo Spirito ad andare altrove. Se ci chiedono, non chiudiamoci, pur con cautela. E così abbiamo già fatto il primo passo, dicendo sì a una nuova presenza in Tunisia».
Perché la Tunisia?
«Già alcuni anni fa, il vescovo di Tunisi mi aveva espresso il suo bisogno di nuove forze missionarie. Di recente lo ha ribadito, anche attraverso una lettera che è un vero “grido d’aiuto”, perciò, insieme alla Direzione generale, siamo andati a fare una visita per renderci conto della realtà locale e delle esigenze. Abbiamo trovato una Chiesa povera di risorse umane: molti Istituti stanno lasciando quel contesto, dove è molto difficile gestire strutture, scuole… In particolare, il vescovo ci ha proposto una presenza nel Sud del Paese, dove i cristiani sono ormai praticamente assenti, e dove ci sono prospettive interessanti di dialogo con l’islam. Ci siamo resi conto che si tratterebbe a tutti gli effetti di una missione ad gentes, con una vicinanza non solo geografica all’altro avamposto del Pime nel Maghreb, quello dell’Algeria. D’altra parte, la sfida del Nord Africa, della relazione con il mondo musulmano è senz’altro centrale e strategica per il nostro tempo. Il nostro confratello padre Anand Talluri è già nel Paese a studiare l’arabo, e all’inizio del 2020 verrà raggiunto da fratel Marco Monti, con cui stabilirà il primo nucleo del Pime nel Sud. Infine il diacono camerunese Romuald Ayangma Babilama, dopo l’ordinazione sacerdotale, andrà a studiare al Pontificio istituto di Studi arabi e d’islamistica (Pisai) per poi impegnarsi sul fronte del dialogo interreligioso».
Ci sono invece realtà pronte per essere consegnate alla Chiesa locale?
«Per ora non abbiamo in programma di lasciare realtà in cui operiamo, anche se magari gestiremo in modo diverso le destinazioni future dei padri. Abbiamo però chiesto alle missioni storiche, come quelle dell’India e del Brasile, di rivedere in parte le loro presenze, con l’obiettivo di non chiudersi nelle strutture, nelle parrocchie, ma cercare di aprirsi alle realtà il più possibile missionarie. Proprio in quest’ottica, con la Direzione generale nei prossimi tre anni gireremo tutte le regioni del Pime per sostenere questa riqualificazione e rivedere in tal senso i contratti con le diocesi».
A parte i contesti geografici, ci sono temi trasversali che vi stanno particolarmente a cuore?
«Ci sono, a cominciare dall’attenzione per le frontiere, fisiche ed esistenziali. Lì si gioca il futuro. Penso all’impegno ad Oiapoque, sul confine tra Brasile, Guyana e Suriname, a crocevia come quelli tra Myanmar, Thailandia e Cina. Ma anche alle missioni coi ragazzi di strada del Camerun, o coi disabili nell’Amapá, o nei quartieri discarica di Città del Messico. Non è semplice vivere in queste periferie esistenziali, occorre prepararsi adeguatamente, ma non possiamo perdere queste presenze. Anche questa è, a tutti gli effetti, evangelizzazione».