È possibile promuovere un’agricoltura ecosostenibile in contesti difficili come il Nord del Kenya? Ci stanno provando due ong italiane, Ipsia e Celim, in collaborazione con un centro locale di permacoltura
È partito da una terra difficile e arida, ha lasciato per qualche tempo il suo popolo fiero, quello dei masai del Kenya, tutto dedito al suo prezioso bestiame, per tornare con un’idea rivoluzionaria: la permacoltura. È stata una scommessa ardua – un azzardo per molti versi – quella di Joseph Lentunyoi che, dopo aver studiato in Australia questa particolare modalità di coltura, ha deciso di riproporla nella sua regione di origine, creando il Laikipia Permaculture Center (Lpc), che ora “parla” un po’ anche italiano.
Dopo l’interessamento della Lush per la loro linea di cosmetici, anche le ong Ipsia e Celim, con il sostegno dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) e la partnership di Cap Holding e del Dipartimento di Scienze per gli alimenti, la nutrizione e l’ambiente dell’Università degli Studi di Milano, hanno promosso il progetto “Coltivare il futuro” che, dallo scorso novembre – e nonostante i rallentamenti imposti dal Coronavirus -, sta dando ulteriore slancio all’iniziativa di Joseph. L’obiettivo è promuovere ulteriori iniziative volte a rafforzare le conoscenze tecnico-agricole delle popolazioni locali e a sviluppare una serie di attività (dalla trasformazione dei prodotti agricoli al turismo) che aumentino le capacità di resilienza delle comunità coinvolte.
«Alcuni anni fa – spiega Giulia Bello, che è arrivata in Kenya nel 2015 facendo il servizio civile con Ipsia e vi è rimasta come coordinatrice-Paese – abbiamo incrociato l’iniziativa del Laikipia Permaculture Center e abbiamo deciso di sostenerla: noi di Ipsia in particolare per quanto riguarda la componente idrica e agricola, che è un po’ lo specifico del nostro lavoro in Kenya dove ci occupiamo di tecniche biologiche e sostenibili e di empowerment delle comunità locali e delle produzioni agro-alimentari. Celim, invece, si concentra principalmente sulle filiere e sul turismo».
Oggi il progetto coinvolge più di 700 persone, l’80 per cento delle quali sono donne, impegnate nella coltivazione di orti, nella produzione di aloe secundiflora e nella trasformazione di un cactus simile al fico d’India, che da un lato è infestante e provoca problemi alle mucche, dall’altro può essere usato per produrre marmellate, succhi e una specie di vino.
Il tutto su una terra che molti non pensavano neppure potesse essere coltivata e tra un popolo tradizionalmente dedito alla pastorizia. Ma la sfida di Joseph e il suo approccio attraverso la permacoltura hanno convinto anche le due ong italiane, attente a tutti gli aspetti dello sviluppo sostenibile.
«La permacoltura – spiega Pietro De Marinis, ricercatore del Dipartimento di Scienze ambientali della Statale di Milano e presidente di Dévelo, laboratorio di cooperazione internazionale, che coinvolge soprattutto studenti o ex studenti della Facoltà di agraria – rientra sotto il grande ombrello dell’agro-ecologia e si occupa dell’equilibrio tra sistemi umani e naturali. Quindi va oltre l’agricoltura in senso stretto. Da un lato, infatti, promuove l’integrazione tra le nuove tecnologie e le antiche conoscenze locali per l’ottenimento dell’autosufficienza energetica, alimentare e idrica; dall’altro, comprende anche una componente di lavoro su di sé e sulla relazione con gli altri. Insomma, la permacoltura dice che non si può fare solo agricoltura senza pensare a cosa facciamo noi stessi con l’agricoltura».
È un approccio ancora molto di nicchia anche se si sta diffondendo un po’ ovunque nel mondo, specialmente là dove è più sviluppata una certa autocritica su sistemi di sviluppo predatori, finalizzati al consumo e al profitto. «Si tratta di mettere in discussione le filiere della grande distribuzione che non sono compatibili con un discorso di evoluzione a livello locale e di sviluppo più diffuso e partecipato», precisa De Marinis. Che continua: «Nei Paesi in via di sviluppo, questo tipo di metodo avrebbe molto senso, ma a volte si scontra con un problema di aspettative. In realtà, non si produce meno, ma è molto più complesso l’approccio. In Africa, ad esempio, dovrebbe essere una scelta collettiva. Se si trova la comunità giusta, capace di far proprio questo tipo di approccio, allora la permacoltura rappresenta davvero una grande opportunità».
È proprio quello che stanno sperimentando al Laikipia Perma-culture Center, dove hanno già coinvolto quattro gruppi di donne e stanno promuovendo nuove iniziative, anche grazie alla cooperazione italiana.
«Ancora oggi si tratta di una bella sfida! – conferma Giulia -. Anche perché ci sono molti aspetti in gioco. Il bisogno di introdurre attività agricole, infatti, è legato al fatto che la pastorizia, che è l’attività principale e quasi esclusiva, incontra molte difficoltà, innanzitutto perché i pascoli si riducono sempre di più: questo è dovuto ai cambiamenti climatici, alla crescita della popolazione e alla presenza sempre più invasiva del cactus. Il tutto ha come conseguenza anche un aumento dei conflitti tra le popolazioni samburu e masai che vivono in questa regione e si contendono i pascoli».
E con gli uomini sempre più lontani e per periodi sempre più lunghi a causa della mancanza di foraggio e di acqua, per le donne è diventato urgente e fondamentale poter garantire a se stesse e ai figli un minimo di sicurezza alimentare. «I masai sono tradizionalmente pastori, quindi non esiste alcuna conoscenza dell’agricoltura – spiegano al Laikipia Permaculture Center -. I cambiamenti climatici, inoltre, li hanno spinti a trovare mezzi di sostentamento alternativi. L’area in cui lavoriamo è una zona arida, con pochissime piogge; l’uso eccessivo dei pascoli e la combustione del carbone hanno provocato degrado ambientale ed erosione del suolo. La maggior parte delle donne con cui lavoriamo cammina tra i 10-20 chilometri per raggiungere il mercato più vicino e acquistare un po’ di cibo in modo da poter consumare almeno qualche pasto adeguato alla settimana».
Di qui l’idea di realizzare degli orti comunitari, ma anche di trasformare alcuni prodotti e di avviare altre attività generatrici di reddito. Il progetto, infatti, si articola attorno a tre assi. Il primo riguarda l’accesso all’acqua attraverso la perforazione di quattro pozzi in altrettante comunità. Il secondo, la trasformazione di diversi prodotti: il miele di cui c’è grande domanda sul mercato locale (e per la cui produzione sono stati distribuiti e installati 22 alveari); l’aloe per la produzione di creme, saponi e lozioni per il corpo; e il cactus, che è la produzione più innovativa e importante anche dal punto di vista sociale, ma è meno conosciuta e non ha ancora preso piede. Infine, il terzo asse è quello turistico.
La realizzazione degli orti comunitari comincia a dare buoni risultati e la produzione potrà ora migliorare grazie alla perforazione dei pozzi e all’utilizzo di tecniche agricole che non impoveriscono il suolo e puntano su piante locali che meglio si adattano al clima e hanno valori nutrizionali più alti; in questo modo si vengono a creare micro ambienti, in cui sono presenti anche alberi, arbusti, piccoli vegetali, frutti, ortaggi, piante che portano vantaggio ad altre piante, secondo il modello della food forest, ovvero della foresta-giardino, in cui si sviluppa un habitat autosufficiente di produzione di cibo, energia e salute. «Nella food forest – spiega Giulia – si ricrea uno spazio naturale simile a quello delle foreste incontaminate, che richiama anche piccoli animali, uccellini e api. Per realizzarlo, però, serve anche molta formazione».
I risultati cominciano a vedersi e le donne masai coinvolte nel progetto hanno acquisito anche una certa consapevolezza rispetto ad alcune attività come la piantumazione di alberi che servono a limitare l’erosione del suolo e ad attenuare i danni spesso catastrofici delle alluvioni. Quella di Laikipia, infatti – come molte altre regioni del Kenya – è sempre più spesso interessata da fenomeni climatici estremi, da terribili siccità a temporali devastanti, sino all’invasione delle locuste che sta flagellando molta parte dell’Africa orientale. «Uno dei gruppi – racconta Giulia – è riuscito a coltivare così tanto che non solo le donne sono diventate autosufficienti, ma riescono anche a vendere i loro prodotti alle comunità vicine, nonostante non abbiano un pozzo e siano in una zona molto remota».
Nel progetto si sono ora inseriti sette nuovi gruppi che vogliono avviare le stesse attività, anche se tutte le iniziative di formazione sono state rimandate a causa del Covid-19.
Grazie soprattutto al lavoro di Celim, il progetto sta cercando di promuovere anche iniziative turistiche con il supporto di altre associazioni in Kenya. Un gruppo ha già costruito una sala conferenze, piccoli cottage e una manyatta, l’abitazione tradizionale masai, dove possono accogliere funzionari locali per le loro riunioni, gente di passaggio o visitatori stranieri. Anche queste attività sono una fonte di reddito e valorizzano una regione molto bella, ma anche molto remota e difficile da raggiungere. Ora si cercherà di aumentare la capacità di accoglienza per altri due gruppi e di costruire alcune conference room con cucina in cui si possono ospitare corsi di formazione, riunioni o altri incontri.
«La contea di Laikipia – sottolinea Celim – ha grandi potenzialità: ha una flora e una fauna incontaminate e una grande varietà di culture legate alle differenti etnie che ci vivono. Può quindi diventare interessante creare percorsi che prevedano un contatto con le diverse comunità. Sempre con modalità ecocompatibili nel rispetto delle risorse del territorio e delle popolazioni stesse».